Berlino, l'ossessione del Muro

Un giro in Trabant sulle tracce del muro che dal 1961 divise in due la capitale tedesca. E di cui il 9 novembre ricorrono i 25 anni dalla caduta.

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 È pesante il cielo sopra Berlino. Soprattutto se visto dai finestrini marezzati di una minuscola Trabant: 25 cavalli, motore due tempi, un gioiello di latta dell’industria della Germania Est che per essere conquistato richiedeva 12 anni di attesa. Un tour nella storia guidando a 40 chilometri all’ora fra le strade di Berlino, dalla porta di Brandeburgo a Potsdamer platz, a Checkpoint Charlie, ai palazzi dell’oligarchia sulla tronfia prospettiva Karl Marx Allee, seguendo il filo d’Arianna del Muro. Il filo della memoria, il confine che divideva l’Est dall’Ovest. Il muro dell’ideologia, costruito dalla Guerra Fredda con mattoni fatti di carne e sangue, le cui fondamenta affondavano nel dolore di famiglie e di un Paese divisi. Simbolo e personificazione di una visione retorica e superficiale del risultato di una scelta politica. Il discrimine fra il di qui e il di là, il tutto e il niente, il Bene e il Male. Il Muro, anzi i muri, a Est e a Ovest. In mezzo, nascosta agli occhi del mondo, silenziosa perché il dolore non fa rumore, la terra di nessuno. Quei cento metri (“la striscia della morte”) che si contendevano la speranza o il nulla, il futuro o la fine di uomini come Günter Litfin, la prima vittima. Persone che covavano ribellioni che danno un sapore all’interrogarsi. Berlinesi che inseguendo sogni di libertà toccata ad altri si librarono sulle proprie storie piccole, sugli anni cauti che ognuno di noi vive, condensando nella manciata di minuti terribili ed esaltanti della fuga il senso irripetibile di una vita.

Il Muro è quasi più presente ora, che se ne festeggiano i 25 anni dalla distruzione, che prima. Lo dimostra il vecchietto accasciato sulla panchina davanti al Reichstag che alla vista delle insegne militari sulle nostre Trabant scatta in piedi facendo il saluto militare, petto in fuori e occhi lucidi. Scena surreale, paradigma di una generazione prigioniera di un’ideologia, cristallizzata in una dimensione atemporale che, ora che il Muro non c’è più, sembra quasi rimpiangerne nostalgicamente i valori, l’oppressiva sicurezza, il falso senso di protezione dato da granitiche certezze. Baricentro ideale di una Berlino in moto perpetuo, il Muro è un’ossessione. Punto di intersezioni e convergenze, barriera e limite che diventa stimolo creativo e luogo di incontro e riflessione, è il primo pensiero dei quasi 27 milioni di turisti che ogni anno affollano questa città bella, vitale, multiculturale, ecologica, trasgressiva e monumentale. Nata fortezza militare, capitale prussiana, Walhalla dei nazisti, roccaforte della Guerra Fredda e ora centro geografico, economico e culturale della nuova Europa con 180 musei, 440 gallerie, 150 teatri, 100 cinema, seimila creativi. Con i complessi futuristici di Daimler City, Sony Center e Beisheim Center a Postdamer platz, i quartieri di design, i contrasti architettonici, i parchi, i giovani, i locali, i festival.

Eppure il dolore si è fatto folklore per un turismo costruito sulle brutture e sulle paure di un periodo che molti possono solo immaginare. Giovani e anziani affollano il cupo museo e la prigione della Stasi, la polizia segreta, quelli del Muro, della vita quotidiana nella Ddr e della Guerra Fredda. Ma visitano anche il Memoriale dell’Olocausto, il museo ebraico e la Topografia del terrore, dedicati agli anni amari del nazismo, trovano bella persino Alexanderplatz, sfoggio muscolare della retorica socialista, ammirano l’installazione Asisi, che ricostruisce un giorno nella Berlino degli anni ʼ80, scendono nelle stazioni fantasma della metropolitana, leggono le tracce del Muro nelle doppie file di piastrelle che punteggiano la città insieme ai nomi degli ebrei deportati scritti sui gradini della metropolitana. Si fanno immortalare al “supermarket” Checkpoint Charlie, danno la caccia a spilline e colbacchi della Ddr, simili a quelli da cui spuntavano i begli occhi della Nikita di Elton John che nel 1985 era «... dall’altra parte di un confine tracciato col passare del tempo contando dieci soldati di latta in fila». Quel confine, quel Muro, la cui cicatrice sparisce volando con il buging jumping dai 125 metri del roof dell’Hotel Park Inn su Alexanderplatz. Nel cielo sopra Berlino. Leggero...

 

Fotografie di Isabella Brega