di Andrew Wilson - National Geographic Traveler | Foto di Kris Davidson
Fra natura, storia, cucina, musica, architettura, dieci anni dopo che l’uragano Katrina ha messo in ginocchio l’intero delta del Mississippi, New Orleans e lo Stato più originale degli Usa sono di nuovo sulla cresta dell’onda
Due baguette incrociate con sopra un teschio mi danno il benvenuto da Killer Poboys, noto a New Orleans per aver reinterpretato il sandwich più famoso della Louisiana, il po’ boy. Pur essendo a due passi dalla celebre Bourbon Street in pochi conoscono questa tavola calda dove assaggiare gamberetti al coriandolo o maiale al rum preparati da Cam Boudreaux e April Bellow. Killer Poboys potrebbe essere una metafora perfetta della Louisiana, penso mentre ordino. È un’anomalia in un luogo che è andato via via standardizzandosi. Sono qui per incontrare Charles Chamberlain, storico della città che, dopo aver lavorato dieci anni al Louisiana State Museum, ha messo in piedi la sua società, Historia, che fornisce immersioni nella storia della Louisiana. Suoi clienti sono accademici, i produttori della serie tv American Horror Story e ora io. «La Louisiana non potrebbe essere niente di diverso da così», dichiara mentre ci dividiamo un sacchetto di patatine Zapps Voodoo, un classico da queste parti. Quando il presidente Thomas Jefferson acquistò queste terre nel 1803 da Napoleone, mi spiega Chamberlain, questa colonia francese era popolata da immigrati francesi e spagnoli, rifugiati da Haiti e schiavi congolesi. Ciascuno di loro aveva già seminato la propria cultura, tradizione e persino cucina sul territorio. «Se stai cercando qualcosa di diverso», mi dice mettendo giù un itinerario, «comincia qui da New
Orleans. Puoi vedere le nostre peculiarità nell’arte visitando uno dei gruppi che sfilano all’inizio del Carnevale che dura due settimane. I turisti aspettano solo il Mardi Gras (in francese nel testo, ndr), che è alla fine; nessuno viene all’inizio, ma è proprio in quel momento che si vedono cose pazze. Poi puoi seguire gli insediamenti francesi fino al Cane River. È dove i creoli di colore hanno costruito il loro mondo. Nel tornare poi in città esplora l’Atchafalaya, la più grande palude d’America, insieme ai cajun (discendenti dei canadesi francofoni dell’Acadia deportati nel Settecento in Louisiana, ndr). La Louisiana è un altro Paese, ma ti devi sbrigare a vederlo; chi sa quanto tempo rimarrà così». La verità è che creoli e cajun, cowboy e pescatori di gamberetti, insomma tutti quelli che vivono in questa terra acquitrinosa, sono minacciati dal mondo che cambia e dall’acqua. Letteralmente. Ogni ora il mare si mangia un campo di football americano di territorio.
Il vento muove le palme tra i cottage creoli nel bayou St. John, un quartiere di New Orleans ignorato dalla maggior parte dei turisti. In pochi conoscono infatti il piccolo mondo segreto delle squadre che organizzano le parate del Carnevale. In una casa in Philip Street, su un grande tavolo da pranzo sono accumulati paillettes, lustrini e colla. Otto tra donne e uomini di mezza età lavorano concentrati come se fossero in una fabbrica cinese. Tagliano, incollano, assemblano piccoli oggetti sotto lo sguardo interessato di un gatto. «Evidentemente gli piace il mio lavoro», fa notare l’artista Caesar Meadows. Insieme a sua moglie Jeannie Detweiler, e ad alcuni amici, fa parte della squadra “'tit Rəx” ('tit sta per petit, piccolo in francese, ndr) con la ə rovesciata per non confondersi con un’altra squadra, i “Rex” appunto. Ma non ci sarebbe pericolo perché si distinguono per qualcosa di ben più particolare: ogni anno organizzano un’intera parata del Mardi Gras... in miniatura. Non sono famosi fuori dalla città anche perché sfilano due o tre settimane prima del clou della festa insieme alla squadra dei “Chewbecca”, ispirata alla saga di Guerre stellari e alla squadra “du Vieux” (i vecchi, in francese, ndr). La sfilata avviene attraverso il quartiere Faubourg Marigny, un tempo misero e triste e oggi trasformato in una sorta di Brooklyn coi fiori che attrae artisti e altre avanguardie. «Si respira eccentricità qui. È senza dubbio una delle comunità creative più eccentriche degli Stati Uniti», racconta Kevin Farrell che ha aperto un ristorantino in zona, il Booty’s Street Food. Turisti non se ne vedono.
Non si vedono turisti nemmeno a Natchitoches, città sul fiume fondata nel 1714 quando commercianti francesi in navigazione decisero di stabilire qui le loro radici fondando il più antico insediamento della Louisiana. Impressiona la somiglianza, seppur in piccolo, con la Royal Street di New Orleans per le case con i balconi, gli antiquari e le gallerie d’arte. La cittadina ha anche il suo mini Mississippi, il Cane River. Lungo 36 miglia, circonda tutta la Cane River National Heritage Area (l’area protetta del fiume Cane, ndr). Sulle due rive numerose tenute, spesso possedute da proprietari con antenati africani, ma proprietari di schiavi. Una di queste proprietà, la Melrose, è visitabile e decorata con i quadri folk dell’artista afroamericana Clementine Hunter. Vagare per questi terreni caratterizzati da edifici costruiti da schiavi con influenze artistiche africane e francesi mi porta lontano dal presente. Incontro per caso Michael Prud’homme, erede della tenuta Oakland: «Ho viaggiato molto, ma ora ne ho abbastanza. Ora siamo a casa. Nella nostra casa morente». I suoi antenati arrivarono qui nel 1720, lui ha deciso di vendere la proprietà al National Park Service perché ne preservi l’integrità, nonché il passato. Mi consiglia anche di visitare la chiesa cattolica di St. Augustine, centro della vita creola locale. Per capirne l’identità complessa che qui descrive persone che discendono da un mix di francesi, spagnoli, africani e nativi americani. Alla chiesa mettono in scena storie della vita locale del passato, rappresentazioni di questa complessità etnica.
Tappa successiva il bacino di Atchafalaya. Sono su una houseboat, una casa sull’acqua, cullata dal fiume, tra i cipressi in un pomeriggio che diventa sempre più buio. Sono quasi spaventato. Mi sembra di sentire i serpenti che strisciano tra gli alberi e gli alligatori che si sciacquano in questa acqua marroncina. Questo bacino di un milione di acri (circa quattromila chilometri quadrati) di acque umide tra New Orleans e Lafayette non è un posto dove stare durante un temporale. A stare qui si perde il senso del tempo e una serenità imprevista ci circonda. Il paesaggio è un mix allo stesso tempo familiare e alieno, tra le ninfee di Monet e Jurassic Park. Il modo migliore per “entrare” in questo luogo misterioso è con l’idroboat (imbarcazione con una grande ventola che scivola sull’acqua a grande velocità, ndr). Intorno a noi solo cipressi e acqua. «È pazzesco quello che puoi trovare in queste acque», mi racconta la mia guida quando alla fine del giro ci rilassiamo bevendo una birra locale, la Abita: «Cisterne di un secolo fa, legname dai campi qui intorno. Prova a cercare appena sotto dopo un temporale e di sicuro trovi un tesoro, dobloni spagnoli, oggetti strani, persino bottiglie di vino di epoca proibizionista».
Forse il resto della louisiana rischia di essere trasformato dal ventunesimo secolo. Qui nel bacino di Atchafalaya non sembra che le persone che ci vivono si preoccupino. Ora che è sera escono anche i musicisti che suonano musiche Zydeco (musica folk creola, ndr). Guardandoli suonare mi rendo conto che qui, sull’acqua, la Louisiana, così particolare e sorprendente, sta continuando a suonare la nota giusta.