Il viaggiatore. Il conte di Montecristo dalla cella al castello

Lo scrittore francese Alexandre Dumas, autore del celebre romanzo, si fece costruire a Le Port-Marly, 20 km da Parigi, un bizzarro palazzo gotico-rinascimentale oggi visitabile

  «Voglio un castello rinascimentale con un padiglione gotico in mezzo a un lago. Il parco dovrà essere all’inglese, con delle cascate.» «Ma monsieur, non è possibile ! È una collina d’argilla. Le costruzioni scivoleranno nella Senna!». Ma Alexandre Dumas padre (1802-1870) non era il tipo da arrendersi e ancora oggi è possibile ammirare e visitare – 20 km a ovest di Parigi, a Le Port-Marly – il fastoso castello di Montecristo, così chiamato in omaggio al celebre romanzo.
All’entrata campeggia il motto di Dumas: «Amo chi mi ama». Non è l’unica scritta di una casa che, come disse un amico, «è un monumento in versi». La più imprudente, vista la torrenziale eloquenza del romanziere, troneggia nella fastosa camera moresca: «La parola è d’argento, ma il silenzio è d’oro». Su due banderuole di zinco era inciso il motto della famiglia paterna, i Davy de la Pailleterie: «La fiamma al vento! L’anima al Signore!». Grande viaggiatore, Dumas mostrava con orgoglio le fantasmagorie della stanza musulmana, opera di uno scultore tunisino: colonne di marmo sostengono l’arco moresco che divide la stanza. Il soffitto è un mare traforato di gesso bianco. Morbidi divani alla turca sono pronti ad accogliere i fumatori di narghilè.
Statue e bassorilievi affollano la villa. «C’erano 36mila franchi di sculture nella casa» riassumeva brutalmente il figlio. Ovunque i bassorilievi fanno fiorire le mura di rose, tritoni e trofei vegetali. Guglie, balaustre e torrette animano il tetto spiovente. Sopra ogni finestra spicca il profilo di un autore caro a Dumas, da Omero a George Byron. A chi gli chiedeva come mai mancasse il suo, ribatteva modestamente: «Io sono dentro». Poi si lasciò convincere e la sua fisionomia piena si staglia sopra la porta. la fantasmagoria del castello non bastava al padrone di casa, che sbrigliava la sua fantasia magnificando ai visitatori mobili e quadri. Divani e poltrone erano rivestiti di stoffe preziose. Un divano ovale fronteggiava il pianoforte. Quattro sedie di palissandro circondavano la scrivania in legno incrostato di rame e tartaruga.
Di lì si passava nel boudoir, dove si trovavano una causeuse e due sofà rivestiti di preziose stoffe orientali. Nel salone chiamato Cachemire si poteva ammirare la ricca collezione d’armi esotiche, raccolte soprattutto in Spagna e Nord Africa: archibugi intarsiati, pistole arabe dal manico d’argento, sciabole dal fodero riccamente scolpito e pugnali d’ogni tipo.
Il tono s’elevava al primo piano, tra le tappezzerie di seta dorata del salone Enrico II. Nella biblioteca, una poltrona in mogano accompagnava la scrivania di quercia. Nello specchio dell’imponente armadio della camera da letto si riflettevano le cinque poltrone in legno dorato, foderate di damasco, e il giaciglio di quercia. Morbide tende di cachemire proteggevano dalla luce i mobili in palissandro del salottino Luigi XVI.
In breve, l’eccentrica dimora divenne la meta favorita dei fannulloni parigini. Dumas porgeva sorridendo la grossa mano a torme di sconosciuti.
La prima sera in cui dormì a Montecristo, dovette faticare per convincere uno sconosciuto a cedergli il letto in cui si era infilato. Una sera, al figlio che gli chiedeva di presentargli uno dei commensali, aveva risposto: «Per presentartelo, aspetto di essergli presentato io». quando i servitori erano assenti scendeva lui stesso in cucina, si infilava il grembiule e cucinava con grande abilità. L’uomo, asseriva, non vive di quel che mangia ma di quello che digerisce.
La sua pancia prominente era la prova della devozione alla buona cucina.
Dumas non poté godere a lungo della realizzazione delle sue fantasie architettoniche. Nella sua sbadataggine aveva scordato di registrare il passaggio di proprietà dei terreni che aveva acquistato per costruire il castello. I venditori non esitarono a chiedergli indietro la terra che aveva pagato a un prezzo maggiorato. Come se non bastasse, i debiti generati dalla sua generosità e dalla sua spensieratezza lo costrinsero a cedere, nel 1851, quel suo sogno di pietra.