di Simonetta Agnello Hornby
Dall’Iran alla Sicilia passando per Aleppo e lo Yemen, storia sentimentale del più bel frutto del mondo nelle parole di una siciliana innamorata del pistacchio
I miei suoceri, accaniti viaggiatori, giravano il mondo su navi da crociera; al ritorno, sottoponevano i loro ospiti ai racconti di lei (gossip sui compagni di viaggio, preferibilmente titolati e celebrity, intravisti o perfino conosciuti a bordo) e alle diapositive di mio suocero. Soggetto de rigueur, la moglie con identico sorriso su sfondi non identificabili, con una eccezione: alcune foto di alberi, che lui, uomo poco loquace, descriveva con passione, avendone studiato le caratteristiche e origini. Viaggio per curiosità per apprendere e per soddisfare i sensi. Preferivo le città, i musei, i ristoranti. Devo a mio suocero l’iniziazione al turismo delle piante. Una pianta coinvolge la vista, il tatto e l’odorato; spesso il gusto (i frutti) e l’udito (il fruscio delle foglie al vento, il martellio sul terreno della caduta delle ghiande). Da allora, in ogni città visito i parchi e l’orto botanico; cerco di andare in campagna, anche se alla periferia, oltre il capolinea di un autobus; un Paese si conosce anche dalle sue piante e da come sono trattate.
Mi struggo al pensiero della amatissima Aleppo bombardata. Che ne è del mercato coperto, il più grande del mondo? E dei frontespizi di pietra bianca e nera, rosa e ocra delle case? E delle moschee, delle chiese, delle case? E della Cittadella? E della gelateria in cui ho assaggiato il gelato di pistacchio più buono mai provato? E che ne è dei famosi pistacchieti del territorio, i migliori del mondo, come sostenevano gli aleppini? Da seimila anni il pistacchio prospera dall’Afghanistan alla penisola arabica; menzionato nella Bibbia come frutto prezioso e prelibato, è anche afrodisiaco. Nello Yemen i frutti erano riservati alla corte della regina di Saba. Che abbia conquistato Salomone porgendogliene uno? Gli Arabi introdussero il pistacchio in Sicilia, dove lo chiamiamo con il nome dato da loro: frastuca. Il vecchio pistacchieto di Mosè, la nostra campagna, ha piante dai tronchi grossi che si dividono e allargano in rami nodosi e ricchi di foglie; piegandosi, creano l’effetto di un ombrello. Complice la luce, sembrano a volte dei mostri con tante mani dalle dita aperte. La raccolta è a settembre. I grappoli di frutti maturano a velocità diverse: ce ne sono di secchi, scuri e rugosi; di morti, piccolissimi, grigi e neretti; acerbi, dalla buccia dura a pallini, giallo su rosa o rosa su giallo; quelli rossi che custodiscono un embrione atrofizzato e infine i pistacchi maturi, rosa o addirittura bianchi, dalla buccia soffice che si spappola tra le dita.
Piccolo, dal sapore inconfondibile, dolcissimo quando è fresco, intenso quando è secco, il pistacchio è il più bel frutto che conosco: la pellicola esterna, dalla punta rosso vermiglio, si trasforma in verde e poi bianco rosato; sul tutto, pennellate dorate, marroncino e verde. Il frutto nudo, profumato e verde brillante, offre al goloso la propria morbida dolcezza. Ogni pianta ha una sua personalità e anche una vita privata. Il pistacchio è semitico anche nella sua organizzazione sociale, basata sulla poligamia: un solo maschio aiutato dal vento feconda un serraglio da cinque a dieci “pistacchie”. Anni fa il nostro terebinto, come si chiama il maschio del pistacchio, non riuscì a fare il suo lavoro e non si raccolse nemmeno un frutto. L’agronomo decretò che la pianta era sana e suggerì di aspettare un altro anno; se il vecchio terebinto non avesse fatto il proprio dovere, sarebbe stato sradicato per lasciare il posto a un albero più giovane: le pistacchie, infatti, vogliono un solo maschio. Quando ce ne sono altri, si confondono e non si concedono a nessuno. L’anno dopo il pistacchieto era pieno di grappoli acerbi: il nostro maschio si era ripreso.
Tra la frutta secca il pistacchio è quella più costosa. A casa nostra, lo usiamo esclusivamente per i dolci, che impreziosice per il sapore e la bellezza, e nelle galantine di pollo, a cui porta una nota di colore, come nelle mortadelle. Da mezzo secolo è diventato di moda nel mondo occidentale. Salato o insaporito di limone, passato in forno per pochi minuti, è un accompagnamento raffinato degli aperitivi. L’Iran, per secoli il maggiore produttore del mondo, è stato superato dalla California, dove innestano il maschio su ciascuna pistacchia. Che tristezza, come un matrimonio forzato. Ogni autunno penso ai pistacchi di Aleppo. Appartengono a una varietà diversa dalla nostra: il loro pistacchio quando matura si gonfia e preme contro il guscio fino a quando non lo spacca rumorosamente. Me ne parlavano gli amici di Aleppo: a metà settembre, in una notte di luna piena, il silenzio della campagna è interrotto dal crepitio di migliaia di gusci che si spaccano: le pistacchie, gregarie e sottomesse, all’unisono schiudono l’involucro sottile e durissimo e offrono il loro frutto alla luna, e allora, soltanto allora, l’innamorato può rivelare il suo amore alla prescelta e gli amanti si allontanano furtivi da casa e cercano il riparo dei pistacchi per allacciarsi in un sublime amplesso. Con impunità. Non lo credetti. Una notte stellata ritornavo da una gita. A un tratto, sentii un crac crac nel buio. E poi come un fuoco d’artificio sonoro, gusci di pistacchi si spaccavano ed echeggiavano dai loro campi, dappertutto, nel buio. Ma non sentii i passetti degli amanti. Forse erano gia sotto le chiome delle pistacchie sgravate.