di Viviano Domenici
Essere a un passo dalla scoperta che fa cambiare una vita e tirarsi indietro un attimo prima. Perché il vero Eldorado è più bello se non lo si raggiunge mai
In tanti viaggi nelle regioni dell’Eldorado m’è capitato almeno due volte d’essere a un passo dal tesoro; quello vero, quello fatto di gioielli, diamanti e dobloni sognato fin da ragazzo, mentre navigavo nei mari dei pirati ed esploravo le foreste dell’avventura. Per due volte me lo trovai davanti, e per due volte mi tirai indietro un attimo prima che svanisse portandosi via anche il mio sogno.
La prima ero a Bogotá, in Colombia, e capii che era il momento di fare quello che avevo in mente da sempre. Andare alla laguna di Guatavita dove anticamente l’Eldorado, l’uomo coperto di polvere d’oro, raggiungeva il centro del lago a bordo di una zattera e si tuffava, mentre dignitari e sacerdoti gettavano in acqua offerte d’oro e preziosi. Questo raccontarono gli indios ai conquistadores. La laguna si trova a 3000 metri, sulla Cordigliera Orientale all’interno di un cono apparentemente vulcanico. Sapevo che l’avrei vista solo dopo aver attraversato un varco che fa da porta d’ingresso allo specchio d’acqua. Lo trovai ed entrai in tutta solitudine in quello spettacolo verde smeraldo. L’acqua era immobile come un cristallo e un bosco folto l’avvolgeva risalendo il declivio interno. Era impossibile costeggiare una riva che non c’era, così m’arrampicai fino alla sommità. Mi sedetti per immaginare l’antico principe del popolo Muisca: in piedi sulla zattera carica d’oro raggiungeva il centro e si tuffava cercando di riscattare con le offerte una bella regina prigioniera del mostro in fondo alla laguna. Un rito che col tempo aveva accumulato un tesoro nel fondale e attirato avventurieri che lo scandagliarono con risultati modesti.
Mi accorsi che per un tratto, vicino all’acqua, la vegetazione lasciava spazio a qualche metro di terra coperta d’erba. Discesi il pendio tra gli alberi fino in fondo, dove trovai due buche scavate da poco e impronte di scarpe nel fango. Lavoro degli huaqueros, i tombaroli. Mi inginocchiai deciso a scavare con le mani fino al tesoro ma pensai alla storia del bambino che voleva svuotare il mare con un cucchiaio e lasciai l’oro dov’era. Per questo ancora oggi ho un sogno.
La seconda volta lo ebbi a portata di mano quando mi recapitarono al Corriere la mappa di un’isola in cui nel Seicento un naufrago fiammingo seppellì tonnellate d’oro e d’argento. L’aveva rintracciata un “naufrologo” tra le carte dell’archivio delle Indie, a Siviglia, e aveva deciso di coinvolgermi nell’affare raccontandomi la storia del naufrago, il segreto per individuare l’isola e localizzare il punto dov’era sepolto il tesoro. Naturalmente c’era qualche problema. Oltre a un’impegnativa traversata, c’era un divieto d’accesso militare che imponeva spericolate soluzioni per impedire ai soldati di vederci scavare. Inoltre, le leggi locali non garantivano affatto che il tesoro andasse a chi lo trovava. Insomma, solo l’avventura era assicurata e questo mi convinse che la mappa sarebbe servita solo a raccontare la storia del tesoro a cui rinunciai. Ma ogni tanto la guardo...