di Paolo Simoncelli | Fotografie di Paolo Simoncelli
L’antico tracciato che collega Bologna e Firenze attraversa vallate, boschi, canyon, fattorie e santuari sotto spettacolari orizzonti. Da qui è passata anche la grande storia, da Casanova a Dante, da Goethe a Marconi
Quando, dopo ore di cammino, il viandante tirò su il cucchiaio dalla zuppa, quello che pareva un broccoletto cotto a puntino si palesò per una falange fumante tra le cipolle e i pomodori. Inorridito, il poveretto se la diede a gambe e con lui gli avventori in viaggio lungo la Via degli Dei, pellegrini, soldati, carrettieri, carbonai, seduti ai tavoli di quella che da lì a poco sarebbe diventata l’Osteria bruciata. Anche se eravamo in pieno medioevo, poteva durare una locanda dove l’oste, quando si trovava a corto di viveri, uccideva i clienti servendoli come spezzatino? No! E infatti l’osteria fu bruciata.
Non siamo lontani dal passo della Futa, tra Firenze e Bologna, sul crinale che divide le valli del Santerno e della Sieve. È in questo crocevia sugli Appennini, percorso nell’antichità da Etruschi, Liguri, Galli, che – secondo la leggenda – ribollivano i pentoloni della malfamata locanda. Data alle fiamme in data immemorabile, non ne resta più nulla. Solo il passo omonimo ne evoca il ricordo. Oggi però, a parte vento e insetti, c’è solo silenzio. E ogni tanto i passi degli escursionisti nelle ipertecnologiche scarpe da trekking. È difficile immaginare i piedi martoriati dei viandanti dei secoli andati. E ancora di più evocare il traffico di merci e uomini che a cavallo del XIII secolo andavano e venivano da Bologna a Firenze. Cento chilometri per prati, pietraie, boschi, su e giù tra terra e cielo alla mercé del clima e degli agguati di banditi. Ci si mise anche Papa Bonifacio VIII, che nel 1300 istituì il Giubileo della Chiesa cattolica, a rendere ancora più affollato il sentiero: non si contavano i pellegrini del Nord Italia e di mezza Europa che percorrevano la mulattiera diretti a Roma. Oggi quell’antico tracciato si chiama Via degli Dei...
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Oggi quell’antico tracciato si chiama Via degli Dei. Non per virtù ultraterrene, ma perché molti luoghi lungo il cammino sono marchiati con toponimi “divini”: monte Venere, Monzuno (da mons Junonis, il monte di Giunone), monte Luario in onore di Lua, dea associata a Saturno. E poi monte Adone, sulla vetta del quale si pensava ci fosse un tempio pagano. Persino il prete esploratore Serafino Calindri – era la fine del Settecento – si mise alla ricerca del misterioso tempio insieme agli abitanti di Brento. Invano.
Mentre penso a questa storia il sentiero si fa ripido. Insieme al mio Virgilio, Stefano Lorenzi di Appennino Slow, ho appena abbandonato la spianata di papaveri che macchia gli orizzonti intorno Sasso Marconi. Si vedeva brillare da chilometri di distanza. Solo il profilo verde delle colline teneva testa a quel bagliore accecante di rosso scarlatto. In un angolo appariva la punta di un vecchio casolare. In un altro il collo di un’oca che razzolava. Per il resto, sotto il cielo blu tutto era rosso.
Dopo aver attraversato i campi in fiore di Prati di Mugnano, il sentiero sale ripido verso le spettacolari torri di monte Adone. Si tratta della parte più elevata del contrafforte d’arenaria formatosi milioni di anni fa, nel Pliocene, per l’erosione del vento sui depositi sedimentari trasportati dai fiumi. In quelle remote ere geologiche, i corsi d’acqua andavano a morire nell’immenso golfo marino che allagava l’attuale Appennino bolognese. È difficile, mentre si guarda verso fondovalle, pensare che una volta laggiù c’erano spiagge. Ma basta smuovere sottili strati di roccia per vedere conchiglie e fossili di creature che milioni di anni fa popolavano quel brodo primordiale.
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Il mio piccolo viaggio nel tempo prosegue. In quattro-sei giorni di cammino, lontano da stress e rumori artificiali, a parte qualche strada provinciale, si incontra un’infinita varietà di paesaggi: vallate, fitti boschi, aridi contrafforti, rocce dalle strane forme. Il premio è sempre lo stesso: l’odore della solitudine, la natura che conforta e a volte fa paura, lo sguardo che corre, come i cavalli sotto il Castello del Trebbio, verso sconfinati spazi aperti. Ogni tanto, all’improvviso, qualche diruto casolare. E poco fuori Monzuno, l’antico ospitale dove mille anni fa i monaci vallombrosiani davano vitto e alloggio ai pellegrini diretti in Toscana. Si arranca ancora un po’ e poi, lungo il passo della Futa, a 1000 metri d’altitudine, appare il metafisico cimitero con le lastre di granito spazzate dal vento dei 30.683 soldati tedeschi morti durante la seconda guerra mondiale. Sono tutte uguali, impegnate a intonare insieme lo stesso triste canto, senza fiori e con rarissime fotografie. Come se tutti quei nomi non meritassero neppure un volto.
Alla fine degli anni Settanta, chi andava a zonzo per l’Appennino bolognese prima o poi s’imbatteva in strani personaggi che armeggiavano sulle mulattiere armati di badili e cesoie. Sradicavano cespugli, tagliavano grovigli di piante spinose, spostavano cumuli di terra. Un lavoraccio. La faccenda andò avanti quasi vent’anni finché quel gruppetto di dilettanti allo sbaraglio guidati da Cesare Agostini e Franco Santi, ex avvocato il primo, muratore-scalpellino il secondo, riportò alla luce tratti di basolato d’epoca romana appartenenti, sostenevano, alla Flaminia militare, costruita nel 187 a.C, sotto il console Caio Flaminio. La convinzione degli Indiana Jones bolognesi era totale. Del resto il tracciato corrispondeva perfettamente ai dettami dell’ingegneria militare dell’antica Roma. Accademici e archeologi titolati storsero il naso. Alla fine arrivò il responso di Giancarlo Susini, storico dell’antichità e professore di storia romana all’università di Bologna: «Non c’è il minimo dubbio» sentenziò, «che si tratta di una strada romana». I tratti meglio conservati si incontrano oggi a monte Castelluccio e Monte di Fò.
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Avanti ancora si passa accanto alla vecchia, gigantesca ghiacciaia. Poi si sfiora il suggestivo abbandono in cui langue l’abbazia di Buonsollazzo, così chiamata non perché fosse popolata da frati gaudenti, ma per il sole che riscaldava la vallata in cui fu costruita. Sfidando l’iracondo custode sono riuscito a penetrare nell’antico tempio, pericolante, pervaso di decadente bellezza, come spesso succede quando l’uomo se ne sta in disparte e lascia che un piccolo universo di arbusti, rami e radici si sposi con le vecchie pietre.
L’aura di molti personaggi aleggia sulla Via degli Dei. Quella del marchese Ugo di Toscana in particolare, è ancora presente intorno alla vecchia abbazia. Si racconta che il “gran barone” citato da Dante nel XVI canto del Paradiso fosse uno sfrenato peccatore ma un giorno, smarritosi nei boschi della Tassaia, si ritrovò davanti l’Inferno. In quella visione uomini sfigurati torturavano le anime dannate con ferro e fuoco. Rimase talmente turbato che decise di vendere i suoi averi e di far edificare sette badie, tra cui quella del Buonsollazzo. A proposito: nel 1286 Dante è a Bologna, e anche se non esistono documenti della sua presenza sulla Via degli Dei, non può che essere passato di qui. In compenso ci sono notizie di illustri viaggiatori che percorsero questa strada: Michel De Montaigne nel 1580, due secoli dopo Goethe, nel 1811 Stendhal. Prima di lui, nel 1761, passò anche Giacomo Casanova che trovò alloggio a Monghidoro (Bo).
Arrivò da queste parti, era il 1845, persino lo zar di Russia Nicola I, che però impedì alle figliolette di sgranchirsi le gambe lungo la strada della Futa perché era «sconveniente» mostrarsi al pubblico. Insomma a quei tempi i viaggi erano disincantati, in qualche modo ironici. Ma soprattutto duri. Come recitava Memorie di un viaggiatore, la pionieristica guida pubblicata a fine Settecento da Louis Dutens, ci volevano 14 ore e 15 minuti per andare in carrozza da Bologna a Firenze. Se non si procedeva a passo d’uomo poco ci mancava. Tanto valeva farsela a piedi. Con la benedizione degli dei.
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