di Todd Pitock - National Geographic Traveler
Laghi salati, indigeni sorridenti e saggi, gite in quad e scoperte affascinanti. Il modo migliore per tornare a vedere il mondo e a farci soprendere. Oltre le migliaia di foto che fanno sembrare tutto già visto.
Il Makgadikgadi, una vasta depressione salata in Botswana, deve assomigliare a quello che doveva essere il pianeta prima che apparisse l’uomo ma anche a come sarà quando non esisteremo più. Questo è quello che penso mentre cerco di circoscrivere il panorama che si staglia di fronte a me. L’immensità è difficile da inquadrare. La mente di un cittadino urbano che ha bisogno di segni, alberi, qualcosa per rendere misurabile il mondo. Ma qui, da un orizzonte all’altro, il panorama è sempre uguale: un antico e asciutto mare di sale e altri minerali senza nessun punto di riferimento tranne le ombre a chiazze delle nuvole che passano. «Ora capisci perché, qualunque cosa ti dicano, la terra in verità è piatta», dice Ralph Bousfield, il tipo che mi ha portato fino a qui. «La terra è completamente piatta, è innegabile come puoi ben vedere». Stiamo guidando dei quad seguendo una traccia nell’orizzonte lontano come se fosse un’unica cucitura tra il primordiale e il postapocalittico. «Cristoforo Colombo non sapeva di cosa stava parlando», mi viene da dire, «perché non è mai stato qui». «Esattamente», conferma Bousfield.
Io viaggio per vedere posti epici, di una bellezza inconsueta, per lasciare il mondo al quale sono abituato e avere la possibilità di uscire dalla sclerotizzazione quotidiana e ricordarmi che esistono cose più grandi. Purtroppo viaggiare alla ricerca della meraviglia oggi è difficile. Basta pensare a come è cambiato il modo di muoversi. Quando Flaubert si trovò per la prima volta davanti alla Sfinge scrisse che ne fu sopraffatto e sconvolto. Adesso si rimane sconvolti dalla miriade di venditori abusivi di souvenir ed escursioni sul cammello. Abbiamo accesso a troppi video, foto, dipinti di ogni parte del mondo. Siamo sovraesposti ancora prima di partire. Arriviamo e abbiamo già visto tutto. Prima di partire per un viaggio alla volta del Taj Mahal lo scorso anno tutti mi dicevano che vivere quell’esperienza sarebbe stato incredibile, molti aggiungevano anche che le foto non gli facevano giustizia. Per me le foto del Taj Mahal sono meglio dell’originale. In ogni caso non ho avuto nessuna sensazione di meraviglia particolare. Io la chiamo la morte dello stupore, alla quale però non voglio arrendermi. Il punto è, dove posso, sulla terra, provare ancora questa sensazione? «questo paese mi riempie il cuore», mi racconta la mia amica Staci via Skype dal Botswana, «non voglio più venire via». Più me ne parlava più mi son convinto che questo posto potesse essere quello giusto. Così sono arrivato in Botswana con la speranza che lo stupore tornasse e, in effetti, da subito ho avuto sensazioni di euforia e scombussolamento. L’euforia, in particolare, mi travolge a Makgadikgadi, un paesaggio tetro dove ci si sente alla fine del mondo. Il Grande Nulla. In effetti questo spicchio di deserto del Kalahari, dieci milioni di anni fa, era coperto da un lago immenso. Da questa zona, secondo alcuni segni evidenziati nel Dna umano, i nostri antenati potrebbero essere emersi. Sia chiaro, non è un posto completamente brullo. Ci sono erba, palme e piante di baobab che raggiungono il cielo. E non manca anche una gran varietà di animali, dai suricati ai felini. Qui ci sono due stagioni: secca e piovosa. Quando finisce quella piovosa migliaia di zebre attraversano l’area per migrare. E poi ci sono anche alcuni indigeni, chiamati San o Bushmen, che un tempo erano nomadi e ora sono agricoltori stanziali. Insomma, l’intera catena della vita qui è presente.
Lo stupore non si limita solo ai paesaggi; è scatenato anche dalle persone che qui vivono connesse con la saggezza intrinseca di questo posto. Ne conoscono le storie ancestrali, gli animali, guardando le stelle per avere messaggi dagli antenati. Un giorno mi presentano un uomo coperto da un vestito di pelle di antilope e con un copricapo di perline. Non si veste sempre così – anche qui la modernità è arrivata – ma lo fa perché è la sua eredità culturale. Un altro uomo, più anziano e saggio, mi dice che non sa esattamente quanti anni ha perché loro non dividono il tempo in anni. La popolazione di Bushmen è solo di 55mila persone, una piccola minoranza rispetto ai due milioni di cittadini del Botswana. Dopo aver parlato con un po’ di queste persone scende la notte e il buio. I Bushmen si stanno preparando per visitare i loro antenati. Accendono un fuoco mentre le donne si siedono e cominciano a battere le mani e a cantare; io mi siedo con le donne. Gli uomini intanto marciano pestando i piedi in un circolo attorno a noi. All’inizio la sensazione è piacevole. Tutti ridono e il canto è armonioso. Poi il ritmo aumenta e il canto armonioso cresce di intensità fino a diventare una sorta di lungo lamento che mi attraversa il corpo. Anche il fuoco diventa più grande e sento che la faccia mi scotta. Alcuni uomini mi sembra che siano entrati in una sorta di trance. Continuano a marciare in tondo, ma non sono più qui. Non sentono la fatica e il caldo. Forse stanno davvero comunicando con i loro avi. Quando tutto finisce ho la sensazione che il deserto sia tornato a essere senza rumori. In realtà basta tendere l’orecchio per sentire il mondo che vive nel sottosuolo, tra insetti e formiche. Mi incantano almeno fino a quando il ruggito lontano di un leone mi riporta a questo mondo.
Il giorno dopo siamo nel bel mezzo del grande nulla. Io e Bousfield guidiamo dei quad attraverso le dune alla base dell’Okavango Rift fino al bacino di sale. Sono ben coperto ma comincio a sentirlo in bocca, troppo anche secondo le quantità raccomandate in una dieta salutare. Una tempesta ci sta passando sopra la testa. Vorrei fermarmi e chiudere gli occhi, ma bisogna andare anche se il mondo sembra giunto alla fine dei suoi giorni. Finalmente troviamo riparo tra alcuni baobab dove ci accampiamo. Il vento ha smesso di soffiare e in poco tempo scende la notte. La Via lattea è ben visibile tra i rami. Ovunque io guardi ci sono stelle. I Bushmen dicono che quando si muore si diventa stella. Con questo pensiero in testa mi addormento. Mi sveglio solo alle prime luci dell’alba. Forse è proprio questo che intendevo per “ritrovare lo stupore”, una sorta di rivelazione in questo paesaggio senza barriere e limiti che distrugge anche quelle interiori per sentire qualcosa di superiore, universale. Lo stupore ci riporta, finalmente, a noi stessi.