Parma. In corso d'Opera

Settimane di prove, studio, professionalità e passione: ogni messa in scena è il frutto dell’impegno di registi, cantanti, orchestrali, ballerini, scenografi, tecnici. Ma anche di sarti, parrucchieri, attrezzisti, decoratori. Un patrimonio di cultura e artigianato che tutto il mondo ci invidia

Una bacchetta si alza. E tutto ha inizio. In un gesto imperioso si coagula, esplode e si consuma la tensione, l’impegno e lo sforzo fisico e psicologico di decine di cantanti, orchestrali, maestranze. Ogni opera è frutto di un progetto e di un lavoro collettivo finalizzati alla messa in scena della fantasia. Il gesto del direttore d’orchestra riassume migliaia di gesti di sarti, truccatori, parrucchieri, tecnici, assistenti, macchinisti, attrezzisti. La forza del destino di Verdi allestita al Teatro Regio di Parma, con l’onirica regia di Stefano Poda, che firma anche coreografie, costumi e luci, e la direzione di Jader Bignamini, è un’armonia di voci e di suoni, musica e drammaturgia, ma soprattutto di mani, che tagliano, cuciono, tingono, avvitano.
Ingegno e mani operose, finzione e realtà, musica e carne: la grande tradizione del melodramma italiano è il risultato di professionalità e passione ma soprattutto dell’arte del fare, della manualità di questi straordinari artigiani dell’Opera. Un patrimonio storico di intelligenza tattile, una cura e attenzione per i dettagli, per la ricostruzione filologica non meno che per l’inventiva, finalizzato alla celebrazione di un momento effimero e irripetibile.

Il palcoscenico, solo qui e solo ora, fulcro ideale a dividere il passato dal futuro. Dietro il buio, fondali scuri brulicanti di mimi, comparse, ballerini, cantanti in moto perpetuo che ripassano coreografie e spartiti, attrezzisti e tecnici che controllano luci e serpenti di cavi e corde, vocalizzi e gesti scaramantici. Davanti la luce, dorata di stucchi e scintillante di lampadari, nell’attesa immobile di spettatori mezzobusto, fra velluti, fregi e dipinti, palchi foderati di damasco, sedie e divanetti stile impero. Sotto, la buca dell’orchestra, stanzette, passaggi e porticine abilmente celate. In alto ballatoi altissimi imbevuti di un pulviscolo azzurrino e il ruggire del temuto loggione del Regio, estimatore di Verdi, lambrusco e anolini. La cosiddetta piccionaia che non chiede ma esige, non ascolta ma giudica, boccia o promuove in una mitologia di storie vere o inventate: sfoggio di toilette d’antan, successi clamorosi, intemperanze, code fiume per i biglietti delle prime. Nelle orecchie l’aria della Vergine degli angeli o il trionfale Rataplan, nelle narici il profumo ruvido di legno, colla, polvere, gli occhi accarezzati dai costumi o abbagliati dal luccichio delle spade.
Un’Opera povera di finanziamenti, ma ricca da maestranze giovani e appassionate, orgogliose della propria tradizione, espressioni di competenze tutte italiane che devono essere sostenute, coltivate, difese e trasmesse per non essere perse. Professionalità diverse che dialogano, si confrontano e contribuiscono al risultato finale. «Qui anch’io mi sento un artigiano - sostiene Poda. - C’è un’alchimia speciale, unica, perché i laboratori sono in teatro e lo spettacolo nasce pezzo pezzo in un’unità assoluta di attrezzi, costumi, scenografie, musica. A Parma tutto nasce come un gesto antico, secondo tecniche antiche. E questa è la magia del teatro che deve resistere».    

 

Foto di Zoe Vincenti