di Donatella Percivale
Finanziamenti a singhiozzo, scandali sulle donazioni, ricostruzione bloccata: dodici mesi dopo l’alluvione la vita stenta a ripartire
Parole che scolorano e celebrazioni che scorticano ferite. Il 18 novembre, in Sardegna, è stato il giorno del ricordo. Un anno dopo l’alluvione che ha devastato la spina dorsale dell’isola (19 i morti e 2.700 gli sfollati), ben poco è cambiato. Terralba, Uras, Solarussa, Torpè, Olbia: i paesaggi del dolore, nonostante lo scorrere del tempo, sono rimasti immutati. I soldi della ricostruzione sono arrivati col contagocce: dei 650 milioni previsti, 474 mancano all’appello. Mentre Roma e l’Europa litigano, la Croce Rossa tenta di gestire lo scandalo dei cinque milioni raccolti e non ancora spesi. Così lo sforzo più grosso, ancora una volta, l’ha fatto la Regione: tirando fuori una cinquantina di milioni per fronteggiare le emergenze. A un anno dal disastro, le unghie di Cleopatra rimangono dunque ben conficcate nel terreno: i corsi d’acqua minacciano ancora paesi e quartieri, ponti e strade sono rimasti interrotti, i vigneti e le serre abbandonati. Anche la paura è rimasta la stessa. E a ogni nuvola gonfia di pioggia, lo stomaco sale in gola e non bastano celebrazioni, applausi, feste o canzoni per ritrovare il coraggio di continuare.
Così, nell’anniversario della tragedia, sono ancora le piccole cose ad alimentare la speranza: “Sardegna chi_ama” la raccolta fondi ideata dal jazzista di Berchidda Paolo Fresu assieme al collettivo di giornalisti #18Undici, ha rimesso in piedi l’anfiteatro comunale di Torpè e ricostruito le aule della scuola media di Uras. A Oliena, con 20mila euro, è stato riaperto il Parco di Su Gologone e con le donazioni di Province come Bolzano si metteranno a disposizione risorse per il Fondo speciale emergenze. Ma la fatica più grande la fanno loro, quelli che vivono nei Comuni alluvionati, quelli che hanno visto le loro case inghiottite da una marea di fango, quelli che il giorno dopo si sono rimboccati le maniche e da allora non hanno mai smesso di ripulire macerie. Molti di loro, agli appuntamenti e alle celebrazioni, hanno preferito il silenzio, allontanandosi dai paesi tirati a festa per non dover assistere al vuoto doloroso del rito.
Giovanni Chessa, il tecnico 49enne di Torpè che incontrammo sei mesi dopo l’alluvione e che si salvò passando la notte con la famiglia sul tetto della sua casa, il 18 novembre ha caricato tutti in macchina e ha schiacciato forte sull’acceleratore: «Ce ne siamo andati via per stare da soli, perché le celebrazioni rinnovano il dolore, perché qui tutto è rimasto fermo come allora: i lavori nella diga, le coltivazioni davanti a casa. Ovunque lo stesso paesaggio di devastazione e sabbia».
Conclusa la giornata del ricordo, rimane aperto il capitolo della giustizia. Domenico Fiordalisi, capo della Procura della Repubblica di Tempio Pausania, ha concluso le indagini e iscritto nel registro degli indagati il nome di 21 amministratori, tra questi: il sindaco Gianni Giovannelli, quattro assessori, cinque dirigenti comunali, tre tecnici, tre geometri. Sono accusati di omicidio colposo e disastro colposo perché con la loro condotta avrebbero causato la morte di sei persone. E di omicidio colposo dovrà rispondere anche la proprietaria della villetta di Arzachena dove persero la vita i Passoni, la famiglia di brasiliani intrappolati da tre metri d’acqua nello scantinato in cui abitavano, sprovvisto del certificato di abitabilità.
Annalisa Lai, invece, la moglie dell’agente Luca Tanzi, inghiottito da una frana sul ponte di Oliena mentre scortava un’ambulanza, a gennaio entrerà a lavorare negli uffici tecnici del corpo di Polizia. Per lei e i suoi due figli, forse, il cielo di Sardegna sarà un po’ più lieve.