Schaulager, lo scrigno di Basilea

Fiore all’occhiello della città svizzera, ospita mostre temporanee e la collezione Hoffmann. Gestendo lo spazio con rigore elvetico: sotto open space, sopra maxiscaffali.

La colonna sonora per smartphone inizia appena si arriva. La “partitura” segue le bizze del roaming tra Svizzera, Germania e Francia – un trillo ogni volta che si passa uno dei confini che solcano Basilea – e scandisce l’esplorazione di una mini metropoli a elevata densità d’arti e cultura. Una realtà concreta e solida in tutti i sensi, alimentata da un mecenatismo opulento e oculato, coi fantastilioni che da decenni traducono l’estro ambizioso in spazi che segnano il paesaggio. Non solo display di avanguardie funzionali e collazioni di collezioni, investimenti di galleristi e fondazioni. C’è un senso di cura per l’arte che, ridefinendo i dualismi pubblico/privato e aperto/chiuso, li supera con una formula tutta sua. Un luogo quest’essenza la compendia più di qualsiasi altro in città. Si chiama Schaulager e si trova a quattro chilometri dal cuore più antico di Basilea, quello coi ciottoli, i fregi e gli scorci da cartolina.
Il Reno regala qui una porzione curva del tragitto, larga e ampia. La si attraversa sui ponti, natürlich, ottimi set per selfie d’ordinanza con la città alle spalle (e davanti). O in acqua, aggrappati a un wickelfisch (sacco galleggiante a forma di pesce). O ancora su uno dei quattro fähri, traghetti ancorati a un cavo sospeso che collegano le sponde sfruttando la cinetica della corrente.
Basilea suggerisce geografie inconsuete, percorsi e interpretazioni nuove di segni e linee. Seguiamo dunque una topologia nostra per scoprire quelle dello Schaulager. E partiamo da due linee parallele, i binari del tram numero 10. È una delle linee più lunghe d’Europa, si fa strada tra campi, chiese, rioni deserti e piazze. Scendiamo alla fermata Dreispitz, tra il centro e Münchenstein, il borgo-cantone di Roger Federer. Area industriale e hub di logistica, è animata da un viavai di fattorini, pendolari e bambini in carrozzine spinte da madri con passaporto elvetico e radici altrove. Al numero 19 di Ruchfeldstrasse lo Schaulager si staglia come uno dei tanti poligoni ben piantati nel terreno del Dreispitz. Le sue superfici dai profili irregolari, ricoperte dallo stesso materiale di scavo, colpiscono ma non confondono. Idem, o quasi, la facciata: un’area concava e affilata segna un cenno di ingresso atipico. Poi si nota il cancello e una sorta di guardiola, isolata come una garitta, dalla forma che ricorda le casette del Monopoli. Il bizzarro pronao laico è completato da due grandi schermi a led, unica interfaccia con l’esterno.

Lo Schaulager è uno scrigno: tutto quello che conta sta dentro. È una struttura per conservare arte, uno spazio espositivo e un centro di ricerca. Qualsiasi modulazione del verbo schauen (vedere) e del sostantivo lager (magazzino) può definirla.
La sua storia si deve a due donne di nome Maja. La prima, la frau Sacher immortalata da Andy Warhol nel 1980, crea la fondazione Emanuel Hoffmann in onore del marito, collezionista. È il 1933, il patrimonio di opere si fa da subito sempre più ingente, cambia diverse sedi a Basilea in cerca di spazi adeguati. Alla sua morte nel 1989, l’altra Maja – Oeri, dinastia Roche – pensa a una location su misura e definitiva. Dieci anni più tardi istituisce la fondazione Laurenz (in onore del figlio) e convoca Jacques Herzog e Pierre de Meuron, archistar locali. La committenza per i due è essenziale quanto difficile: un luogo per custodire l’arte, rendendola accessibile alle mani dei restauratori e agli occhi di ricercatori, proprietari, studiosi. Mediando tra l’esigenza centripeta di conservazione e quella centrifuga di fruizione: la prima vuole spazi raccolti e opere ravvicinate, condizioni monitorate di temperatura e umidità, accessi distillati e controllati; la seconda va nella direzione opposta.

Il progetto iniziale prevede due sole dimensioni espositive, una verticale e una orizzontale. Enormi superfici su cui disporre, appese alla megaparete o collocate a terra, le opere in un grandioso sguardo d’insieme. Si passa però subito alla soluzione attuale: un hangar d’autore su cinque livelli, altrettanti scaffali over-size. Zero fronzoli, 15mila metri quadri di superfici sono l’estetica della solidità, Swiss made. Nei due piani inferiori è allestita l’arte per il pubblico, grandi sale che l’occhio abbraccia, guardando davanti a sé e in basso, appena si entra.

È nei tre piani superiori che la collezione è preservata. Lo sguardo sale verso l’alto e non vede nulla: solo linee orizzontali, balaustre di cemento e fasci di neon su pattern rigorosamente lineari. Lassù ci sono decine e decine di storage room, identiche da fuori, uniche per il contenuto all’interno. Tra i silenzi interrotti da passi discreti, bip sommessi anticipano il fruscio delle porte scorrevoli che aprono a micromusei individuali.
La galassia sigillata dello Schaulager pulsa qui dal 2003. È una matrioska bianca e grigia in un guscio marrone, coi toni e le forme artistiche nel nucleo più interno. Quelle di Barney, Boetti, Christo, LeWitt, Miró, Mondrian, Tàpies. E decine di altri.    

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Foto di Tom Bisig