Prato, volano gli stracci

Clara VannucciClara VannucciClara VannucciClara VannucciClara VannucciClara VannucciClara VannucciClara Vannucci

La capitale dei “cenci” e della grande comunità cinese si scrolla di dosso l’immagine di città industriale, riscopre la sua storia nell’arte e si lancia, alla pari con Firenze, come nuovo centro di teatro e cultura contemporanea. Sorprendente

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Decine di camicie colorate su fili invisibili si arrampicano sulle mura antiche di Prato. Se c’è vento tremano, se c’è sole brillano. Quando saranno usurate i cittadini le sostituiranno. Le guardi e ti senti parte di un mondo fragile, proprio quello che l’artista finlandese Kaarina Kaikkonen vuole comunicare con la sua opera, Crossing borders. Appare invece solo al buio, sui muri di piazza di S. Maria in Castello, il volto de La grande sognatrice di Fabrizio Corneli. Se la fissi, ti fa rilassare. Sono le installazioni permanenti prodotte per l’evento Prato contemporanea della scorsa primavera, che preparano il terreno all’apertura della nuova ala del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci e alla sua promozione a Museo regionale, per meglio rilanciarne l’eccellenza dopo 25 anni di attività. Un evento che rinfocola la vocazione primaria della città: sperimentare. Energia congenita in continuo divenire, dove oggi è già domani e il passato ha un futuro. Il nome stesso e i suoi anagrammi lo confermano: è prato che accoglie; porta da cui si entra e si esce; parto nel senso di andare, ma anche di venire al mondo; porat, che in lingua dalmata significa porto, viavai di genti, mercanzia, amori.

Una roba elaborata Prato, che merita più attenzione specie da chi la conosce solo per la lavorazione dei panni e per quei 40mila cinesi – tra regolari (oltre 20mila compresa la provincia) e non – che nel giro di vent’anni sono entrati nel suo ventre mangiandosi un pezzo di imprese e provocando una crisi che ha costretto a ripensare vecchi modelli e sperimentarne di nuovi. Tra cenci e cinesi si è materializzata una terza “c”, la cultura, che grazie a lungimiranti investimenti del Comune sta aprendo la strada al turismo. Sfida coraggiosa con Firenze a poco più di 15 chilometri. «è un’azione geniale» dice lo scrittore ed ex industriale Edoardo Nesi, pieno di amore e rabbia per la sua terra in Storia della mia gente. «Tipica dei pratesi che hanno sempre cavalcato i cambiamenti e che ricorda una frase dello scrittore Richard Ford: “l’economia in qualche modo soccomberà a un atto dell’immaginazione”».

 

Eccola Prato dalla terrazza del medievale Palazzo Pretorio tornato il centro della vita cittadina con un restauro e un allestimento museale che lasciano senza fiato. In lontananza svettano le ultime ciminiere, totem di una civiltà da tenere sempre in mente; più vicino le vie ad angolo retto sul modello dell’antica centuriazione romana con il grande slargo di piazza Mercatale «dove tutto cominciò» perché lì c’erano un prato e un mercato; il Castello dell’imperatore Federico II e la basilica di Giuliano da Sangallo nella piazza delle Carceri fresca di pavimentazione; il Duomo, caveau di tesori immensi. Tra i palazzi medievali spicca quello di Francesco di Marco Datini, il “mercante di Prato”, che creò nella seconda metà del Trecento un’azienda internazionale di produzione e commercio del tessile. Il suo archivio con oltre 200mila documenti è esplorato da studiosi di tutto il mondo. C’è pure una scultura dell’artista Marco Lodola, si chiama Margherita in omaggio alla moglie del mercante. Non te lo aspetti, ma in una città che guarda oltre le sorprese non finiscono mai. Persino la scultura moderna di Henry Moore, da 40 anni sul prato di piazza S. Marco, è un pezzo da museo.

Altra sorpresa è la biblioteca Lazzerini, un essere vivente che abita nell’antica fabbrica Campolmi, il più grande complesso industriale di Prato, simbolo della sua storia produttiva. Il portone d’ingresso sembra quello di una cattedrale, libri, giornali e pc brillano alla luce di enormi vetrate, sciami di studenti affollano le sale, sembra New York per l’energia che si avverte. Accanto è il Museo del tessuto con campioni e documenti dal V secolo: ciuffi di stoffa che hanno attraversato secoli e continenti facendo grande la moda italiana. Guizza l’arte grazie al teatro Metastasio e al Politeama con l’orchestra Camerata strumentale, prezioso incubatore che mette il sangue nelle vene. «Siamo privilegiati a vivere a Prato dove il fluire di umanità e ingegno si sente a pelle», racconta Franco Casaglieri, storico, attore, regista e amico di un pratese d’adozione, Roberto Benigni (arrivato a sei anni con la famiglia prima nella frazione di Galciana poi a Vergaio). «Il colloquio tra commercio, arte e industria ha consentito sperimentazioni e trasformazioni nel corso dei secoli e per questo, pur se è stata tenuta all’ombra da Firenze, non è mai stata nell’ombra».

Non poteva del resto rimanere nell’ombra una comunità così ingegnosa che incanalando l’acqua del Bisenzio ha inventato tessuti fra i più belli del mondo; o che ha costruito il motore del suo sviluppo e la sua identità da un mistero: quello della striscia di lana venerata come la Sacra Cintola della Madonna. Grazie alla reliquia tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento Prato diviene capitale dell’arte con al centro la Fabbrica del Duomo – dove la Sacra Cintola è ancora esposta – e le imprese di artisti come Donatello, Michelozzo, Paolo Uccello e Filippo Lippi, geniale monaco carmelitano. Il pittore regala a Prato tutto l’ingegno, l’estro e l’amore di cui dispone, ispirato dall’attrazione per una monaca, Lucrezia Buti, da cui non si stacca più. L’incarnato roseo e le forme morbide dell’amata entrano nei suoi capolavori sotto forma di santa, ma anche di sinuosa Salomè; sono dipinti carnali e puri, mai visti prima, così come il loro amore completato da due pargoli. Il primo diventerà un genio della pittura: Filippino

Lippi e gli altri artisti rivoluzionano l’arte italiana tanto che per Keith Christiansen, tra i maggiori esperti d’arte rinascimentale, «non si può capire il Rinascimento senza conoscere Prato». E, aggiungiamo noi, senza sapere della storia tra Filippo e Lucrezia, che l’attore John Malkovich – lanciatosi a Prato nella moda insieme allo stilista Riccardo Rami – vorrebbe raccontare in un film. Un’idea che sarebbe bene accolta dalla città, set cinematografico naturale dove sono stati girati Berlinguer ti voglio bene con Benigni, Madonna che silenzio c’è stasera con il pratese doc Francesco Nuti; Amici miei atto III con Tognazzi. Prato, una delle italiche Terre rare per usare il titolo di un libro di un altro pratese, Sandro Veronesi, che si sta rigenerando come fa da mille anni con la lana, sfibrandola, maciullandola, rendendola come nuova. «Prato, creativa e pragmatica perché – dice Berta Tempesti, una vita nella moda – la sua genesi è mercantile, laboriosa, nessuna puzza sotto il naso, ed è grazie a questo che, dopo aver pagato un prezzo altissimo,  sta ritrovando nel suo dna la strada da percorrere».

C’è un’altra sfida che attende prato, l’integrazione con i cinesi di terza generazione, nati o cresciuti qui che non vogliono tornare in Cina come i genitori. Impresa titanica che solo la cultura come melting pot di anime, cervelli e corpi può compiere. In passato ha funzionato. Uno per tutti, un immigrato di seconda generazione, Kurt Erich Suckert, che si faceva chiamare con un nome italiano di cortesia, come i cinesi nati a Prato: Curzio Malaparte. 

Fotografie di Clara Vannucci