Brivido sardo

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Il carnevale isolano è il momento dell’anno in cui più che altrove vengono a galla tracce di arcaici riti grotteschi e inquietanti cerimonie pagane. Corse equestri, balli, canzoni, per un mese ogni paese della Sardegna è scosso da un fremito di festa

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C’è il dio che muore al centro del carnevale sardo. Un Carnevale popolato da cortei di streghe, pazzi, guardiani e vittime, uomini col gabbano calato sul volto e negli occhi la disperazione della fertilità venuta a mancare. Anche il nome Carrasecare conserva un sapore tragico e luttuoso: carre ’e segare, tradotto dal sardo, significa “carne viva da smembrare”. Niente a che vedere con stelle filanti e coriandoli, travestimenti dissacranti e sfilate burlesche, ma maschere orride che in chiave grottesca mettono in scena il rapporto uomo-animale, rituali arcaici di esorcizzazione legati alla morte e alla rinascita della natura, capretti e agnelli lacerati vivi in omaggio a Dioniso, il dio sbranato dai titani.
Nella seconda settimana di febbraio (dal 12 al 17), l’antica isola di Sandalia celebra Su Carrasecare, con decine e decine di maschere protagoniste del rito. Maschere coperte di pelli, ossa, corna, a cui si riconosce il potere di influire sui raccolti, maschere annerite dal grasso di sughero bruciato e spalmato sul volto (zinziveddu), che si muovono zoppicando, cariche di campanacci, mimando la passione e la morte di Dioniso Mainoles. Anche in questo caso, l’etimologia della lingua porta dritta dritta al cuore del mito: Maimone deriverebbe da Maimon (“colui che smania, che vuole essere posseduto dal dio”), impiegato, assieme al termine Mamuthone, per indicare quelle figure spaventose che impersonificano i seguaci del culto di Dioniso, il dio pazzo e furioso, simbolo di ebbrezza ed estasi. Non una festa, dunque, ma un rito pagano in bianco e nero, che scorre lungo la schiena della Sardegna, dalla Barbagia fino al Campidano, e che va vissuto con la consapevolezza di un viaggio nel tempo, avvolti dagli elementi primordiali e con in bocca il sapore del lardo e del vino forte. Un rito che ha inizio la notte di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, quando enormi falò incendiano volti e piazze in ricordo del frate che rubò il fuoco agli inferi per donarlo agli uomini. La notte in cui contadini e pastori chiedono grazia e miracoli, una notte carica di sensualità e mistero dove, secondo l’antica leggenda, anche gli animali incontrano la parola.

«Se vuoi un Carnevale che non ce n’è un altro su tutta la terra, vattene a Mamoiada, che lo inaugura il giorno di Sant’Antonio: vedrai l’armento con maschere di legno, l’armento muto e prigioniero, i vecchi vinti, i giovani vincitori: un Carnevale triste, un Carnevale delle ceneri, storia nostra d’ogni giorno, gioia condita con un po’ di fiele e aceto, miele amaro». Così lo scrittore sardo Salvatore Cambosu raccontava il rito di Su Carrasecare, nelle pagine di uno dei suoi romanzi più famosi, Miele Amaro, pubblicato nel 1954. I Carnevali dal sapore luttuoso sono tutti quelli barbaricini, dove le vittime, tenute alla fune da un guardiano, vanno incontro alla morte attraverso una danza sfrenata: accade a Mamoiada, in provincia di Nuoro, con le maschere spettrali dei Mamuthones e degli Issohadores a spaventare il pubblico con le frustate di sa soha (il lazo). E accade a Orotelli, dove i temibili Thurpos (gli storpi), coperti da lunghi pastrani in orbace, costringono i malcapitati a offrire fiumi di grappa e vino. A Lula l’impressionante Battileddu (lo scemo del villaggio) si trascina per le vie del paese col viso sporco di sangue, coperto di pelli di pecora, in testa il copricapo fatto di corna bovine e stomaco di capra e, nel petto, seminascosto dai campanacci, uno stomaco di bue ripieno di sangue e acqua (su chentu puzone), di tanto in tanto perforato per fertilizzare la terra.

Le maschere che al calar del sole avanzano curve sotto il peso di sa carriga (campanacci che possono pesare anche trenta chili), che danzano tra fuochi e tamburi, che incarnano oscure presenze in grado di predire il futuro – più o meno prospero o infausto a seconda della quantità di vino offerto – sono le protagoniste anche del Carnevale di Ottana dove vive Sa filonzana, l’unico personaggio femminile del Carnevale sardo, che comanda tutto e tutti perché ha in mano il destino delle nostre vite. In realtà si tratta di uomini travestiti da vecchie zoppe: piegate dall’età, vestite di nero e con il volto nascosto da una maschera tengono fra le mani il fuso, la conocchia e grosse forbici da tosa portatrici di morte. Un’ombra di morte che si respira anche nelle notti folli di Ovodda, dove l’odiato don Conte, fantoccio antropomorfo maschile, talvolta ermafrodito, trainato su un carro da un asino, viene giustiziato, messo al rogo e gettato dalla scarpata più ripida del paese. Quello di Ovodda ricorda il rituale neolitico del “geronticidio” dove i padri oramai anziani, dopo essere stati bastonati, venivano gettati da uno dei figli nei pressi di un dirupo tra i ghigni e le risa sardoniche degli assassini.

Per lasciarsi alle spalle i gesti e i colori luttuosi dei riti barbaricini, occorre scendere verso sud: a Oristano s’incontrano le colorate corse equestri di Sa Sartiglia con le spettacolari quadriglie di origine medievale e i cavalieri mascherati, lanciati a tutta velocità, che tentano di infilare in corsa una stella sospesa, auspicio di buon raccolto. Da non perdere anche il Carnevale di Santu Lussurgiu (Sa Carrela ’e nanti), tra i più spericolati della Sardegna, dove decine di cavalieri col volto dipinto mostrano il loro valore sfidandosi – da soli o in coppia – in corse temerarie lungo le tortuose vie del centro. Anche in questo caso, è l’intera popolazione che partecipa al rito, dandosi appuntamento in massa lungo la strada e aprendo un varco solo un attimo prima della furia dei cavalli in corsa.

Allusivo, ironico, teatrale: arrivato sull’altra costa, a Bosa, il Carnevale abbandona i passi cadenzati dei Mamuthones e le sembianze animalesche viste in Barbagia, per trasformarsi in una festa scanzonata e irriverente. L’apice si raggiunge martedì grasso, quando, sin dal mattino, le Attittadoras, maschere dalle sembianze femminili vestite a lutto e con il viso annerito da ceneri di sughero bruciato, piangono istericamente l’agonia di Giolzi, il Carnevale morente, simboleggiato da un bambolotto a cui mancano parti del corpo. Tenuto in braccio o esibito in una culla dalle prefiche, il bambolotto riecheggia il mito di Dioniso.

E dopo il tramonto sarà d’ obbligo il cambio d’abito: non più vesti funebri, ma abiti candidi e una lanterna in mano per illuminare la notte, animata dalla spasmodica ricerca di Giolzi. Assai gioiosi sono anche i ballos ’e sa pàrtza, i balli in piazza Mannu a Seneghe. Qui il Carnevale inizia il 20 gennaio, in occasione della festa patronale di San Sebastiano, e prosegue al suono della fisarmonica. Che la festa abbia inizio.

Fotografie di Gianmario Marras