di Gianluca Biscalchin
Massimo Bottura è considerato il terzo chef migliore al mondo. Lo abbiamo raggiunto nel suo ristorante Osteria Francescana di Modena per cogliere di prima mano il suo pensiero capace di coniugare nei suoi piatti la tradizione emiliana con le novità emergenti del mondo.
È terzo nella classifica mondiale dei migliori chef, ma molti lo vorrebbero primo. Massimo Bottura e il suo ristorante Osteria Francescana (Modena, via Stella 22, tel. 059.223912) sono un tesoro locale e nazionale, come la Ferrari e l’aceto balsamico. Tutte eccellenze modenesi. Ora lo chef, dopo le tre stelle Michelin e i maggiori riconoscimenti internazionali, ha deciso finalmente di raccontarsi. E lo fa con un libro distante anni luce dalle raccolte patinate di ricette che affollano la sezione cucina delle librerie. Vieni in Italia con me (L’ippocampo, 296 pagine, 39,90 euro) è diverso. È un libro di narrazione, d’arte (con le foto di Carlo Benvenuto e Stefano Graziani) e di pensiero. Scritto con la collaborazione preziosa e intelligente della moglie Lara. Bottura infatti è un affabulatore, un alchimista, un funambolo della parola come della cucina. Il testo si legge come un romanzo. E si scopre quanto la ricerca d’avanguardia gastronomica dello chef sia legata alla sua terra, l’Emilia. Ma è anche un libro che celebra le rezdore, le signore della sfoglia, i contadini, i produttori e i ragazzi che lavorano in cucina. Una comunità.
Mi ha colpito molto il fatto che nel libro usa sempre il noi.
È un punto fondamentale. Siamo una squadra. Siamo noi. Insieme si lavora, si evolve e si gioca la finale di Champions league ogni pranzo e ogni cena. Questa è l’Osteria Francescana. E poi c’è la famiglia degli artigiani, dei contadini. Dopo vent’anni ci arrivano le telefonate da questi eroi, perché sono eroi, e ci portano le loro meraviglie. L’altro giorno il sindaco di Frassinoro ci ha portato da Piandelagotti le patate novelle d’altura. Completamente bio. Straordinarie. E allora il tuo lavoro diventa più facile.
All’inizio però ha fatto fatica.
Non esisteva niente. Quella dei fornitori è una rete che ci siamo dovuti costruire negli anni. Magari c’era un buon produttore a cento chilometri, uno a venti e tu dovevi andarteli a cercare uno a uno. Oggi sono loro che vengono da noi a proporci le loro meraviglie. Però l’ingrediente fondamentale è il tuo pensiero. Non puoi fare a meno di quello. Puoi viaggiare in tutto il mondo ma se non hai quello sei perduto.
Ha dovuto anche convincere i produttori a pensare alla qualità oltre che alla quantità?
Certo. Abbiamo fatto un grande lavoro sul latte della mucca bianca modenese e adesso il produttore di parmigiano Rosola non riesce a stare dietro agli ordini. La forza è credere in un futuro di qualità. Quando l’azienda ha ripreso a usare le vacche bianche modenesi per il latte non erano convinti. Adesso è il caseificio di riferimento del Consorzio del parmigiano. Il loro è un cru straordinario. In termini quantitativi ci perdono: 4,5 litri contro 10, meno della metà. Ma la qualità è strepitosa. Lo stesso è successo per la mortadella. I produttori mi dicevano: se usiamo la vescica naturale spurga troppo grasso e perdiamo peso. Gli ho detto: dovete fare una selezione di carni per fare un prodotto straordinario. Bisogna tornare al passato facendo una mortadella unica. E in più il budello naturale fa spurgare il grasso in eccesso e rende il prodotto più leggero e digeribile.
Quindi il suo è un discorso tecnico, non solo poetico?
Esatto. Siamo critici in tutto. Nella nostra triglia alla livornese per esempio abbiamo aggirato il problema del sapore del pesce che finisce tutto nel sugo e non rimane nella carne. Allora togliamo quelle triglie e mettiamo nel sugo nuove triglie. È un pesce che ha un retrogusto amaro che noi correggiamo riempiendola di scampi. Scottata leggermente su una crosta di pane diventa perfetta.
Quindi il suo è un discorso tecnico, non solo poetico?
Esatto. Siamo critici in tutto. Nella nostra triglia alla livornese per esempio abbiamo aggirato il problema del sapore del pesce che finisce tutto nel sugo e non rimane nella carne. Allora togliamo quelle triglie e mettiamo nel sugo nuove triglie. È un pesce che ha un retrogusto amaro che noi correggiamo riempiendola di scampi. Scottata leggermente su una crosta di pane diventa perfetta.
Quindi il suo lavoro è quello di trasportare la tradizione verso la modernità?
Il primo capitolo del libro è tutto basato sul territorio e la tradizione in evoluzione. È come se mi fossi nascosto sotto il tavolo in cucina dove mia nonna tirava la pasta e da lì ho guardato il mondo da un’altra prospettiva.
E ho pensato al passato sotto una chiave critica. Per portare il meglio della tradizione nel futuro. Senza nostalgia. E da sotto quel tavolo ho capito che la cultura è diventata la nostra forza motivazionale che ha creato i nostri paesaggi di idee. I nostri piatti sono paesaggi virtuali dipinti con le nostre idee e con la nostra cultura.
Dalla cultura siamo passati alla conoscenza, poi alla coscienza e infine poi al senso di responsabilità.
È questo il suo processo creativo?
Sì. Questo è il percorso: quando tu sai lavorare una sardina, una testa di maiale o una crosta di parmigiano vuol dire che hai la conoscenza e solo così puoi trasmettere delle emozioni. Poi è il momento della coscienza, ovvero l’arte che mi ha ispirato e che mi porta a vedere cose che neanche immagini. Infine arriva il senso di responsabilità: «Vieni in Italia con me» significa gesto sociale, senso di responsabilità. È un percorso naturale, fatto giorno dopo giorno, con quello che leggi, che guardi, che ascolti, le tue passioni. In fondo è tutto lì, se non hai passione leggi per leggere. Se hai passioni leggi per imparare.
Alcune sono ricette “sociali” come il risotto cacio e pepe, un’idea nata per utilizzare il parmigiano scampato al terremoto e aiutare i produttori. Altre sono “metaforiche”, come la Millefoglie di foglie.
In quest’ultimo piatto si racconta una storia: sei alla fermata dell’autobus in autunno, arriva il vento e tutte le foglie cadono e si sovrappongono. È la poetica del quotidiano. Se non hai poesia dentro di te vedi le foglie cadere e pensi: «Che seccatura, cadono le foglie e magari inciampo». Se hai la poesia le vedi appoggiarsi lente una sopra l’altra. E poi immagini un bosco e dentro il bosco ci sono funghi, tartufi, castagne arrosto e bollite, nespole, zucca, saba, sughi… E tutto questo diventa un piatto.
Prima parlava di cucina come responsabilità. Quando è tornato dall’esperienza di Ferran Adrià, il grande maestro della cucina creativa, si è trovato con dei monumenti della tradizione della sua terra come l’aceto balsamico o il parmigiano.
Il messaggio di Adrià non è quello della follia tecnica, come molti credono, ma è quello della libertà mentale, creativa. Ferran mi ha lavato il cervello e liberato il pensiero. E ho capito che posso trasmettere un’emozione grazie a una crosta di parmigiano. Io non devo usare del caviale a tutti i costi. Qui ci sono prodotti così importanti che rischiano di bloccarti. Ma io devo usarli perché sono la mia memoria, il mio passato che non rinnego. Parto da qui. Noi la tradizione non la rinneghiamo ma siamo pronti a evolverla. Con la tradizione bisogna scontrarsi per trovare le scintille della novità. Se ti perdi nella nostalgia sei finito, se guardi la tradizione in chiave critica ti ci scontri. Nel momento in cui ti scontri c’è la luce nella notte. Che ti permette di costruire qualcosa di nuovo su quella tradizione.
Uno chef come Adrià però non aveva a disposizione né grandi materie prime né una grande tradizione gastronomica come quella italiana.
Infatti era molto più libero. Oltre agli chef qui in Italia ci troviamo di fronte a un popolo che addenta una mozzarella di bufala e dice: ma quanto buona è? I palati delle persone sono sintonizzati ad altissime frequenze e quindi devi fare i conti con un gusto molto elaborato. Forse è per questo che noi italiani abbiamo sempre paura del nuovo, paura di perdere quei sapori straordinari con i quali siamo cresciuti, che sia un tocco di parmigiano, che sia una mortadella strepitosa, un culatello di 40 mesi o un aceto balsamico di 50 anni. Però li perderemo se non abbiamo la capacità critica di mettere in discussione la tradizione.
Lei è profondamente radicato a Modena e al tempo stesso cosmopolita, in un dialogo con le intelligenze della cucina internazionale. È possibile essere italiani e aperti al mondo?
Certo. Noi però dobbiamo lottare. I cento ingegneri italiani che lavorano per la Apple a Cupertino, in California, dovrebbero essere convinti a tornare qui. Abbiamo bisogno delle menti più brillanti. Non è una questione di provincia. Dico sempre ai ragazzi modenesi che danno la colpa di tutto alla provincia: è una questione di qualità delle idee. La provincia anzi ti aiuta a crescere più lentamente. Ad arrivare al successo quando sei maturo. Nelle grandi città sei sempre in prima linea ma se fallisci ti spazzano via e si dimenticano di te. In provincia puoi costruire, sperimentare, sbagliare. Te lo fanno pagare ma poi te lo perdonano. Però se ti perdi nella provincia ti perdi nella nostalgia. E allora devi viaggiare con gli occhi e le orecchie aperte. Devi apprendere. Essere umile, approcciarti al mondo e farti contaminare in modo saggio e non selvaggio. Quando ti sei contaminato non ti dimenticare mai chi sei e da dove vieni. A quel punto è fatta.