In Emilia, il labirinto dell'editore

Franco Maria Ricci ha raccolto la sua biblioteca e le sue opere d’arte dentro questo intricato, grandioso – è il più vasto del mondo – giardino. Un sogno borgesiano nato 38 anni fa e realizzato oggi a Fontanellato (Parma)

Ceduti il marchio e l’attività editoriale, nata nel 1963 e conosciuta in tutto il mondo, Franco Maria Ricci (nella foto), grafico, editore, collezionista, uomo di cultura e di eleganza suprema, ha finalmente esaudito la promessa, fatta a Jorge Luis Borges nel 1977, quando fu suo ospite a Milano, di costruire il più grande labirinto del mondo. Aprirà al pubblico nel mese di maggio.
A pochi minuti da Fontanellato (Parma), il Labirinto, ispirato ai percorsi geometrici raffigurati nei mosaici romani, ha una pianta a stella che si estende su sette ettari intorno a un quadrato centrale, ma a differenza dei labirinti romani, monoviari, quello di Masone, sulle terre dell’editore ereditate dal nonno, si snoda in biforcazioni, bivii, vicoli ciechi: tre chilometri e un’ora e mezzo di percorso (se non ci si perde) tra siepi di bambù alte cinque metri. «Il tradizionale bosso sarebbe stato troppo lento, il bambù invece cresce veloce, basta mettersi seduti e si può vederlo salire verso il cielo,» spiega il 75enne Franco Maria Ricci.

Il labirinto sarà la dimostrazione vivente di che cosa si può fare con il bambù: rivestire, per esempio, i lati delle autostrade per nascondere il degrado delle campagne invase dai capannoni industriali e dalle discariche. La fondazione Fmr metterà a disposizione delle amministrazioni pubbliche trenta specie di bambù per restaurare il paesaggio. Solo il Labirinto è composto da una ventina di specie diverse, da quelle nane alle giganti, piante acquistate per lo più nella bambuseraie di Anduze, nel sud della Francia, ma anche in Liguria e in Cina. Il bambù è una pianta prodigiosa, che assorbe l’anidride carbonica e purifica l’aria: i primi ad accorgersi che in questa chiazza di verde cangiante l’aria è più pulita sono stati gli uccelli.

Sbuchiamo in una radura circondata da bambù elicriso, convinti per un momento di essere nel fitto di una foresta della Cambogia, quando con un fruscio, una coppia di poiane prende il volo dal folto delle foglie, nel cielo striato da nuvole allungate e bianchissime che sembrano anch’esse nate dalla matita di Franco Maria. Gli uccelli arrivano a stormi e un problema imprevisto, ci dice la moglie di Ricci, Laura Casalis, che con lui condivide le gioie e le ansie di quest’impresa, è ora proteggere gli edifici dal loro guano.

Con Pier Carlo Bontempi, architetto parmense di formazione classica, Ricci ha costruito edifici per cinquemila metri quadrati, ispirati ai principi di solidità ed eleganza di Étienne-Louis Boullée, Claude-Nicolas Ledoux e Jean-Jacques Lequeu, gli architetti della rivoluzione francese: all’esterno in mattoni a vista di un tiepido rosso, fabbricati apposta, e rigorosamente neoclassici all’interno, con stucchi, colonne, busti in marmo.
Insieme alla piramide, che contiene una cappella, all’uscita del labirinto si visiterà la biblioteca di Franco Maria Ricci, oltre quindicimila volumi, tra cui una collezione quasi completa (ne mancano quattro o cinque) dei volumi del tipografo e stampatore del Settecento Giambattista Bodoni, direttore della Stamperia Ducale di Parma e ispiratore dell’attività editoriale di Ricci; l’intera produzione di Alberto Tallone, altro raffinatissimo tipografo-editore e naturalmente gli oltre seicento volumi pubblicati dall’editore parmigiano in cinquant’anni di attività: le collane I segni dell’uomo, La biblioteca di Babele diretta da Borges, Le guide impossibili, Grand Tour, la ristampa dei 18 volumi dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, la magnifica rivista FMR che nella presentazione del primo numero il suo creatore definiva «la più bella rivista del mondo». Il modello, stavolta, è il principe belga Charles Joseph de Ligne, che alla fine del Settecento si ritirò nel suo castello di Belœil per sistemare l’immensa biblioteca e la collezione d’arte. Un altro degli edifici ospiterà infatti la sua immensa ed eclettica collezione d’arte, 500 opere tra cui sculture di Gian Lorenzo Bernini, Antonio Canova, Adolfo Wildt, dipinti di Francesco Hayez, Ludovico Carracci fino a Ligabue.

Ci saranno anche un ristorante, un bistrot, uno spaccio di prodotti locali, due immense sale per eventi speciali, una sala da ballo racchiusa nel verde, due suite ognuna con due bagni, uno per lui e uno per lei, tutto all’insegna del gusto e della bellezza.
Nell’ideazione del Labirinto Ricci è stato aiutato da un incontro fortunato con un giovane architetto torinese, Davide Dutto. Lo andò a trovare un giorno per mostrargli la sua tesi che ricostruiva l’isola di Citera descritta nell’Hypnerotomachia Poliphili, romanzo allegorico con 172 xilografie pubblicato nel 1499 da Aldo Manuzio il Vecchio. Dutto aveva ricostruito e disegnato minuziosamente perfino i colori dei fiori. Ricci non ebbe dubbi: non solo decise di pubblicare la tesi, ma affidò al suo autore il compito di aiutarlo a progettare il Labirinto.

«Il labirinto è una tra le fantasie più antiche dell’umanità, simboleggia la fatica del percorrere la vita, ma anche la speranza di una via d’uscita. Nel Medioevo aveva un significato religioso; poi, nel Settecento, è entrato nei giardini di ville e castelli come gioco», dice Ricci. Ed è una delle metafore centrali del secolo, oggi che il nostro universo semantico somiglia più che mai a un labirinto, senza centro né periferia, interno ed esterno. Nonché una chiave per capire la personalità del suo artefice, la cui opera è sempre scaturita dalla meraviglia, dal desiderio di vedere oltre e il cui pensiero rizomatico procede per multipli, a formare una rete o appunto un labirinto aperto, in cui ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro.     

Fotografie di Fondazione Franco Maria Ricci