Egitto. L'altro Mar Rosso

Francesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco TomasinelliFrancesco Tomasinelli

Speculazioni edilizie e turismo di massa hanno rovinato parte della costa egiziana. A sud di Marsa Alam, tuttavia, un parco nazionale è una possibile via alternativa allo sviluppo. Saprà diventare un modello di sostenibilità?

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Metti la testa sotto e apri gli occhi. Anzi, li spalanchi. E rimani senza respiro. Perché nessuno ti aveva avvertito di che cosa sarebbe successo, al primo bagno sopra una barriera corallina. Di fronte alla tua maschera, sfilano giganteschi coralli rosa, pesci lunghi e stretti come aghi, fiori sinuosi, sciami di creature violette che si perdono nel blu. La moltitudine di forme e colori ti fa quasi perdere la ragione: sei in un acquario di dimensioni spropositate? In un giardino incantato? In una dimensione parallela, fatta soltanto di silenzi e bellezza? Arriva persino una tartaruga che ti guarda con fare sospetto, deve aver capito il tuo stupore. È meravigliosa, nella sua preistorica indifferenza, nella sua tranquilla indolenza. Ed è quasi troppo: rimetti la testa fuori dall’acqua per prendere fiato. 

Pare incredibile, che questo spettacolo tropicale sia soltanto a quattro ore di aereo dall’Italia. E pare incredibile che fino a qualche decina di anni fa il Mar Rosso egiziano non lo conoscesse nessuno. Poi, sappiamo tutti quello che è successo: iniziando dal Sinai, da quella Sharm El Sheik che è diventata quasi una colonia italiana (e russa, in questi ultimi anni), e a mano a mano proseguendo verso sud, hotel e villaggi sono spuntati come funghi, occupando ogni angolo di costa, senza alcuna pianificazione sensata e sostenibile. Le piacevoli, costanti temperature a portata di mano – e i servizi all inclusive – hanno attirato anno dopo anno milioni di europei pronti a svernare nelle piscine naturali egiziane. Una nuova frontiera del turismo di massa, forse la prima del mondo contemporaneo.

«Non ci si rende conto di quanto questi ecosistemi siano fragili: basta poco perché siano compromessi per sempre». Mohammed Gad veste la kandura, il classico abito arabo: da lontano è una macchia bianca dalla testa ai piedi, alterazione cromatica tra il giallo del deserto e il blu del mare. Lui – funzionario del ministero dell’Ambiente, oggi direttore del Parco nazionale di Wadi El Gemal – è uno dei pochi a essersi sempre battuto per la salvaguardia del Mar Rosso. «Quando è stato istituito il parco, nel 2003», racconta mentre guidiamo lungo la costa a sud di Marsa Alam, «c’era l’urgenza di fare qualcosa. Non potevamo permettere che anche in questa zona si continuasse con l’invasione di case e di turisti». Così, in fretta e furia, quasi tracciandola con un righello, è stata disegnata un’area protetta, che tutela quasi settemila chilometri quadrati di mare e terra e che prende il nome dallo wadi principale dell’area, letteralmente «il fiume dei dromedari» (lo wadi è il letto di un torrente a carattere stagionale). Vietato costruire lungo la costa e altrove; vietato sbarcare sulle isole; vietato scorrazzare in quad nel deserto. Sembra quasi un miracolo: percorriamo chilometri e chilometri senza vedere un hotel. Soltanto mare, sabbia e roccia.

 

Qualche linea tracciata sulla carta evidentemente è servita a fermare lo sviluppo incontrollato. Ma, si sa, non basta a fare un’area protetta, non basta a proteggerla per sempre. Ci vogliono uomini, denaro, educazione, costanza. «È dal 2006 che vengo in questa zona a studiare i mammiferi marini. E posso dirti che il parco è un toccasana, i tentativi di conservazione ovviamente positivi, ma non ci sono ancora le condizioni per fare tutto quello che si dovrebbe fare». Maddalena Fumagalli, biologa marina, è innamorata del Mar Rosso: lo si capisce dall’entusiasmo travolgente con cui racconta dei “suoi” delfini. Mi racconta di come abbia contribuito a studiare la popolazione di stenelle dal lungo rostro, la specie più comune in queste acque, nel reef di Samadai: un gruppo di affioramenti corallini fuori dal parco, vicino a Marsa Alam, dove nel 2006 sono stati proprio gli operatori turistici a chiedere al Governo di intervenire. «La situazione era diventata intollerabile: dato che le stenelle sono abitudinarie e di giorno vengono a riposare nelle acque basse circostanti il reef, Samadai era divenuto il miglior posto dove poter offrire ai turisti l’agognato bagno con i delfini. Risultato: non si riusciva più a circolare, tante barche c’erano in mare. E puoi immaginarti il disturbo agli animali». In pochi mesi, è stato preparato un piano di gestione: numero chiuso per le barche, orari di visita limitati a certi periodi del giorno, un ticket per pagare i ranger che controllano l’afflusso dei turisti. «Un successo insperato, che ancora oggi prosegue» continua Maddalena. «Ma ovviamente quelle di Samadai non sono le uniche stenelle dell’area. Così gli operatori, pur di non far pagare il biglietto, si sono spostati più a sud, a Satayah, questa volta nell’area del parco. Dove si ripetono le stesse scene: decine di turisti letteralmente lanciati dai gommoni non appena vengono avvistati i delfini. Che ovviamente scappano». Il parco non ha soldi per pagare i ranger, la benzina per le barche, il servizio di sorveglianza. E tutto è un po’ lasciato al caso. «L’obiettivo della mia ricerca è proprio quello di capire come riuscire a regolare la presenza turistica anche qui e offrire una soluzione gestionale sulla base del comportamento degli animali. Ma non sarà facile applicarla». 

Mi rendo conto che i numeri sono maledettamente importanti. Da una parte, milioni di turisti (e operatori, palazzinari, politici, e tutto quel che segue – in un Paese come l’Egitto che non ha certo dato grandi segni di stabilità anche nel passato più recente). Dall’altra, un manipolo di persone che prova a crederci. Sembra una chimera. Eppure, oltre a Maddalena e ad altri suoi «colleghi» – come Agnese Mancini, che studia le tartarughe, e come i ragazzi di Hepca, un’organizzazione non governativa per la conservazione della biodiversità del Mar Rosso – incontro altri segnali di speranza. «Il nostro villaggio si è trovato all’interno del parco, quando questo è stato istituito» esordisce Johannes Girardi, del Gorgonia Beach. «Non potevamo non approfittare dell’occasione». Il Gorgonia – proprietà italiana, clientela anche da Germania, Svezia e altri Paesi – è grande: 350 camere, tre ristoranti, sei bar, quattro piscine. Non si può dire che l’impatto sia minimo, anche se la struttura è stata costruita in maniera poco impattante alla vista, senza quelle megalomanie che si vedono più a nord. Però sta tentando di tutto per essere sostenibile. «Tutta l’acqua che circola nel resort, per esempio», racconta Johannes, «viene estratta da tre pozzi profondi e desalinizzata, trattata e analizzata, prima di essere messa in rete. E quella degli scarichi viene purificata in modo da essere riutilizzata per irrigare i giardini: non si butta via nulla e soprattutto nel mare non finisce alcuno scarico». Pannelli solari per produrre acqua calda, raccolta differenziata dei rifiuti, attività di sensibilizzazione come la periodica pulizia del litorale, trasformata in una gara fra i villeggianti; e ancora, la costruzione di una tenda beduina dove i locali possono vendere i loro prodotti senza vagare da un ombrellone all’altro e anche un bellissimo «ecobook» nelle camere per educare i turisti, che si trovano la barriera corallina a pochi metri dalla spiaggia: tutto questo ha valso al Gorgonia riconoscimenti e certificazioni importanti, dalla Green Star al Cristal, e non solo a livello locale. «E ora ci stiamo dando da fare anche per il parco».

Vero: perché il gorgonia beach, insieme a un ente di sviluppo tedesco, sta finalmente riuscendo a fare quello che in anni non era stato ancora possibile, almeno con una certa continuità di gestione. Ovvero: far vivere il parco. «Da giugno 2016» spiega Mahmoud Sarhan, coordinatore del progetto «potremo far partire attività di ecoturismo all’interno dell’area protetta, gite in bicicletta, trekking, passeggiate sui cammelli, birdwatching, yoga, e, la notte, osservazione delle stelle. Finalmente - vendendo pacchetti ai tour operator degli hotel - potremo portare visitatori all’interno del deserto, cosa che fino a oggi non era possibile. E avremo un centro visite completamente rinnovato». Gli obiettivi ovviamente sono molti e ambiziosi: favorire lo sviluppo della popolazione locale, che potrebbe lavorare come guida; aumentare gli introiti, per favorire il controllo e la gestione del parco; creare un modello virtuoso, per mostrare all’Egitto (e al mondo) che con l’ecoturismo e la conservazione si può creare un modello di ospitalità nel rispetto dell’ambiente. Mahmoud è giovane, ha 35 anni, ma è laureato in Gran Bretagna e sta finendo un master in sviluppo internazionale alla Cornell University di New York: anche lui è simbolo di una nuova generazione egiziana che può contribuire a una svolta. 

Quando con la jeep ci inoltriamo lungo uno dei wadi del parco è l’alba. Muri di rocce giallastre si colorano al sole. Poi uno spettacolo di pietre bianche e gessose, vecchi coralli erosi dal tempo, montagne rosse, colline nere come la pece. Non sembra esserci alcuna forma vivente, neanche un uccello che vola nel cielo: soltanto qualche acacia solitaria in mezzo ai fiumi secchi da anni, capolavoro di resistenza e tenacia in una terra dove non è previsto l’errore. Inizia a far caldo. Arriviamo a un’antica miniera di smeraldi, ricordo che fa volare la fantasia a quando questo deserto era attraversato da mille carovane che facevano la spola tra il Nilo e Berenice, sulla costa vicino al confine con il Sudan. «Il deserto a ovest del Nilo è molto diverso da quello a est» mi spiega Mohammed Gad. «A est del grande fiume c’è sabbia, morte. A ovest c’è roccia, vita. E ben lo sapevano le popolazioni nomadi locali: gli Ababda vivono da sempre nel deserto tra il Nilo e il Mar Rosso, nel rispetto per l’ambiente che li circonda. Per loro rompere un ramo verde è considerato un reato». Mi chiedo come sia possibile associare alla vita quello che vedo attorno a me. Sembra una sorta di contrappasso: tanto è palese nel mare, la vita, quanto è nascosta sulla terra. Ma anche questa è una ricchezza.

Siamo lontani dal Nilo, eppure siamo vicini: e non solo per tutti quei folli che per un giorno lasciano il mare e si sorbiscono dieci ore di pullman, tra andata e ritorno, per appagare la sete di antichità egizie (arrivano a Luxor, visitano e ritornano). Ma anche per tutti gli egiziani della valle del Nilo che vengono a lavorare nei resort, nei parchi, nella polizia: il Mar Rosso di oggi dà lavoro a migliaia di persone. Anche tutti i prodotti agricoli, le uova, la carne, tutto viene dal Nilo – ore e ore di viaggio per sfamare le fameliche bocche dei patiti del “tutto compreso”. Arrivano dal Nilo anche alcune scolaresche in visita al parco, che incontriamo in una bellissima area di mangrovie. Non hanno mai visto il mare, che guardano con sorrisi di straordinario stupore. Spiegargli che anche questa è la loro nazione, il loro Egitto, è l’unica speranza possibile perché acqua e deserto del Mar Rosso possano continuare a vivere.

Foto di Francesco Tomasinelli