di Isabella Brega | Foto di Isabella Brega
Durante la seconda guerra mondiale un gruppo di coraggiosi soprintendenti salvò i capolavori del Bel Paese dai bombardamenti alleati e dalle razzie naziste mettendoli al sicuro in luoghi segreti. Ecco la storia di uno di loro, Pasquale Rotondi.
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Non i monumenti. La vera grande bellezza dell’italia siamo noi. Nati in mezzo al bello, lo beviamo con il latte. E vi ci abituiamo, rischiando di darlo per scontato, come fa il lattante con il seno della madre. È allora, come scriveva Indro Montanelli, che «iniziano i nostri guai, e il mio rimpianto». Gli italiani crescono circondati da opere d’arte, musica, design, moda. Artigiani con l’intelligenza tattile nei polpastrelli, grandi chef che coniugano tradizione e innovazione, creativi che dettano le regole del buon gusto. Un tesoro che è nel nostro dna e nel nostro temperamento, da sempre oscillante fra Gassman e Sordi, fra eroismi e viltà, fra il si salvi chi può e l’onore. È in nome di questa grande bellezza, nel senso di responsabilità nei confronti di un patrimonio che appartiene al mondo e che abbiamo il dovere di tramandare a chi verrà dopo di noi, che durante la seconda guerra mondiale, incalzati dai bombardamenti alleati e dalle razzie tedesche, un gruppo di soprintendenti fedeli al Paese e a se stessi non accettò la deriva di un mondo ferocemente impazzito. Non si lasciò rubare il futuro e scelse di servire e di difendere l’arte e la bellezza della propria anima.
«Fare la guerra in Italia È come combattere in un maledetto museo d’arte»: nell’affermazione del generale M. W. Clark, comandante delle forze alleate nel nostro Paese, c’è tutto il dramma di quei momenti. Chiese e monumenti vengono puntellati con sostegni in muratura e imbottiti con sacchi di sabbia, stoffe e ovatta, armature in legno sono messe a protezione di statue e fontane, mentre dipinti e sculture sono trasferiti in segreto in luoghi ritenuti sicuri. Una storia bella e poco conosciuta, degna di un grande romanzo di spionaggio. Un gioco a rimpiattino fra buoni e cattivi, fra pericoli e sotterfugi. E, come in tutti i romanzi che si rispettino, anche l’amore, ma per l’arte.
Di notte, in segreto, come i sacerdoti egiziani spostavano da una tomba all’altra le mummie dei faraoni per sottrarle ai cacciatori di tesori, topi da biblioteca si trasformano in uomini d’azione, timidi Clark Kent diventano tanti Superman, affrontando con coraggio ostinato bombe e posti di blocco per trasportare su camion militari e privati, Topolino e Balilla, casse di capolavori nascoste sotto pile di materassi e coperte.
In questa guerra dichiarata all’arte italiana il piccolo esercito dei Monument men di casa nostra che, come i colleghi americani celebrati nel recente film di George Clooney, si adoperano per la salvezza di migliaia di capolavori, è costituito da Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli, Rodolfo Siviero, Bartolomeo Nogara, Pasquale Rotondi, Emilio Lavagnino. E ancora, agenti dei servizi segreti fascisti fedeli più alla propria coscienza che all’ideologia, uomini di cultura, soprintendenti della Direzione generale delle Arti di Roma, una delle poche organizzazioni statali che lotta per mantenere le proprie competenze perché, come scrive il suo direttore Marino Lazzari «di questa arte, di questa storia noi soli siamo i titolari, i detentori, i responsabili». Fra i personaggi e le iniziative, spesso solitarie, la più importante è l’Operazione Salvataggio iniziata otto mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia e portata a termine da Pasquale Rotondi su incarico del ministro Giuseppe Bottai, fascista nel cuore ma difensore delle opere italiane dalle razzie ingorde di Adolf Hitler e di Hermann Göring, destinate a quello che avrebbe dovuto essere il più grande museo del mondo, il Führermuseum di Linz. Dal 1939 al 1944 l’allora trentenne soprintendente delle Marche e della Dalmazia porta in salvo ben 6.509 capolavori nascondendoli nella piccola ma compatta Rocca Ubaldesca di Sassocorvaro. Un luogo segreto, indicato nei documenti solo come Ricovero, con la R maiuscola.
La fortezza quattrocentesca a forma di tartaruga, progettata da Francesco di Giorgio Martini, è in realtà un ripiego. In origine il luogo prescelto è il Palazzo Ducale di Urbino, ma è lo stesso Rotondi a scoprire al suo arrivo, il 1° ottobre 1939, la presenza di un deposito di esplosivi dell’aeronautica nella collina sotto la città. Bisogna cambiare programma. Per mesi Rotondi setaccia le Marche alla ricerca di un luogo sicuro. Mica facile: vicino a Urbino, dove ha sede la sovrintendenza, ma lontano da centri industriali, ferroviari o di interesse bellico, solido, non troppo isolato dal centro abitato, privo di umidità ma ricco di acqua per gli impianti antincendio. Poi nel giugno 1940, a una cinquantina di chilometri dal mare, ecco Sassocorvaro, nel Montefeltro di Piero della Francesca. La scelta è fatta e, dopo la costruzione di muri antischegge e anticrolli, impianto antincendio e, soprattutto, installazione di campanelli collegati con la locale stazione dei carabinieri (lavori eseguiti velocemente dalla ditta Montagna che ne differisce il pagamento a tempo indeterminato, Rotondi non ha una lira), parte la fase B. Arrivano le opere dai musei marchigiani, seguono più di cento pezzi dalle Gallerie dell’Accademia, dalla Ca’ d’Oro e dal Museo orientale di Venezia, prima fra tutte La tempesta di Giorgione, secondo Rotondi «Forse il quadro più raro e suggestivo che possegga l’Italia». In totale 131 casse e 34 rulli di capolavori: la più grande concentrazione di opere d’arte che sia mai esistita.
Protetto dal rispetto e dal riserbo degli abitanti, da quattro custodi e dai carabinieri di Sassocorvaro, il segreto regge per cinque anni, tre mesi e otto giorni. Ma la guerra si complica e così anche la vita delle opere d’arte. Rotondi deve cercare un secondo ricovero. Il maestoso Palazzo dei principi di Carpegna, eretto nel 1675 dal cardinale Gaspare, è perfetto. Fra aprile e giugno 1943 arrivano i primi “profughi” da Lazio, Lombardia e Venezia, fra cui Lo sposalizio della Vergine di Raffaello e la Pala d’Oro di San Marco. Alla fine i due ricoveri traboccano di circa ottomila fra opere d’arte e preziosi manoscritti.
Poi l’8 settembre, ed è il caos. I due ricoveri non sono più sicuri. Il 19 ottobre i tedeschi fanno irruzione a Carpegna alla ricerca di armi. Trovano invece tante casse, ne forzano una. Dal baule emerge La purga, un manoscritto inedito di Gioacchino Rossini. «Cartacce», e lasciano perdere. Ma Rotondi, terrorizzato dal pericolo corso, si precipita a Sassocorvaro insieme al tassista urbinate Augusto Pretelli che, nonostante l’enorme rischio della requisizione del mezzo che gli dà da vivere, non si tira indietro. Con il suo aiuto Rotondi carica la Balilla con le opere più preziose e le porta a Urbino. La città brulica di tedeschi e non è possibile nasconderle subito a Palazzo Ducale. Così La Tempesta di Giorgione, il San Giorgio del Mantegna, quattro Madonne di Bellini e altri capolavori finiscono sotto il letto del soprintendente. Pasquale e la moglie Zea passano tutta la notte in contemplazione della Tempesta. Zea stessa si finge malata per impedire persino ai figli l’accesso alla stanza. Ma il pericolo non è certo cessato, bisogna svuotare in fretta Sassocorvaro, mentre Carpegna è momentaneamente “congelata” dall’occupazione tedesca. Il soprintendente approfitta della richiesta di restituzione delle opere ecclesiastiche del Patriarca di Venezia al vescovo di Urbino per trasferirle a Palazzo Ducale, mischiate alle casse con i capolavori di proprietà dello Stato italiano. Tutto è nascosto nei sotterranei del palazzo dei Montefeltro e sotto il Duomo, in depositi segreti i cui accessi vengono murati da operai di fiducia. Con lo stesso stratagemma, un’analoga richiesta di restituzione da parte di Milano, altre casse riescono a partire da Carpegna per i rifugi di Urbino.
I bombardamenti alleati, le pretese dei tedeschi, l’ignavia, il vuoto di potere, le direttive contrastanti del nuovo governo portano i dirigenti delle soprintendenze a rifiutare di trasferire a Venezia i capolavori delle Gallerie romane, come “suggerito” dai nazisti, decisi a portarli poi oltrefrontiera. Peraltro, ancora prima dell’armistizio, i funzionari della Direzione Generale delle Belle Arti, Carlo Giulio Argan ed Ernesto Lavagnino, hanno intavolato trattative segrete con il segretario di Stato del Vaticano, monsignor Giovan Battista Montini, il futuro Paolo VI, e con il comando dell’ambiguo Kunstschutz, l’equivalente tedesco dell’americana Monuments, Fine Arts and Archives Sub-Commission per la protezione delle opere d’arte in territorio di guerra. L’obiettivo è quello di riparare le opere fra le neutrali mura pontificie, tutelando al tempo stesso anche la proprietà giuridica dello Stato italiano sia nei confronti delle truppe occupanti sia degli anglo-americani.
È in questo momento drammatico, con Sassocorvaro, Carpegna e la valle del Foglia segnata dalla costruzione di bunker e campi minati della Linea Gotica, estrema resistenza tedesca all’avanzare delle truppe americane, che si incrocia il destino di Pasquale Rotondi e di Ernesto Lavagnino. Due uomini dello Stato che dimostrano come il coraggio nasca da piccole storie che respirano l’assoluto. Persone comuni, eroi loro malgrado, che mentre tutti perdono la testa si assumono semplicemente la responsabilità dei propri gesti. Perché anche un solo uomo può fare la differenza. Pasquale Rotondi, con il suo cappottino scuro e il cappello di feltro, nella sua dignità semplice non ha nulla del Rambo. È e rimane un funzionario, fedele al proprio ruolo, ma, come gli scrive Giulio Carlo Argan «sei il solo che abbia saputo anteporre la coscienza e la responsabilità e la dignità morale dello studioso al conformismo del burocrate.» L’eroismo della normalità lo porta a compiere un’impresa straordinaria, consapevole però dei rischi enormi che corre, tanto da affidare a un notaio l’indicazione dei nascondigli nel caso gli fosse successo qualcosa. Simile nella passione e risoluto Ernesto Lavagnino, messo forzatamente in pensione perché, come molti altri funzionari delle Belle Arti, si era rifiutato di seguire al Nord il governo della Repubblica Sociale. Lavagnino a sue spese, battendo palmo a palmo il Lazio con la sua piccola Topolino con tre ruote prestate da Palma Bucarelli, la bella e volitiva direttrice della Galleria d’arte moderna di Roma, rastrella le opere d’arte in pericolo. Mette al sicuro in Vaticano 700 casse di capolavori. Sempre lui, procuratosi tra mille difficoltà permessi, camion e l’introvabile carburante, nell’inverno 1943-44 con due diversi trasferimenti riesce in segreto a evacuare in Vaticano i depositi marchigiani. Opere consegnate da Rotondi che, nonostante il divieto del ministro al loro spostamento, dichiara di non voler ubbidire se non alla propria coscienza. Con i capolavori della Chiesa, i soli autorizzati dai tedeschi, mischiati con il già collaudato stratagemma con opere dello Stato, viaggia un pacco con farina, salame, tagliatelle e caciotte per i colleghi di Roma affamata. Perché non si vive di sola arte.
Pasquale Rotondi, investito da una moto pirata su un marciapiede romano la notte di Capodanno, muore il 2 gennaio 1991. Ha 82 anni. In tribunale la vita dell’uomo che ha salvato capolavori dell’arte italiana del valore di milioni di euro viene risarcita con 12 milioni di lire.