Grecia. Peloponneso segreto

A Monemvasia e dintorni, nel Sudest ellenico, tra acque cristalline, spiagge solitarie e persone innamorate della loro terra.

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Lei si chiama Ann e viene da Londra. è una signora di mezza età, la noti prima per il suo bassotto esuberante che per l’acconciatura estrosa. «Sono arrivata a Monemvasía per caso quand’avevo 18 anni» mi racconta. «Non sono mai riuscita a staccarmene. You can see with your eyes why. Puoi vedere con i tuoi occhi perché». Una sera di inizio luglio, il mare placido come se si stesse godendo anche lui l’aria calda della sera. Sul tavolino, capperi, olive, due pezzi di formaggio, pomodori, un bicchiere di vino bianco: quasi un banchetto omerico, un’ode al Mediterraneo. Brindiamo come se fossimo vecchi amici, io e Ann, incontrata un quarto d’ora prima, il suo bassotto scappato a scodinzolare tra le mie gambe. Parliamo di un paese che io ho scoperto da qualche ora e lei da un po’ di più. «Unico. Monemvasía ha qualcosa di unico» continua a ripetermi. «Non è un luogo comune: lo capirai anche tu. Io ho comprato casa qui negli anni Settanta, quando il borgo era praticamente abbandonato. C’erano solo snakes and spiders, serpenti e ragni tra i muri che cadevano a pezzi. Mi dicevano: ma che cosa vai a fare nel kastro? Ah, li rivedo quegli sguardi!». Ride. Il sole tramonta dietro la montagna. Le ore di strada per arrivare fin qui – il traffico di Atene, poi Sparta, poi avanti verso il dito più a est del Peloponneso - mi sembrano all’improvviso così lontane. (continua sotto il video)

10 motivi per andare a Monemvasia, video collegato all'articolo

In realtà ho già iniziato a capire perché Monemvasía è unica. è bastato spalancare gli occhi, curva dopo curva, a mano a mano che quello sperone di roccia lontano, proteso nel mare, prendeva sempre più forma: una montagna buttata tra le onde, quasi una balena gigante, un dinosauro, o forse – siamo pur sempre in Grecia – un mostro marino uscito da qualche mito antico. Un tempo Monemvasía era un’isola, oggi è una penisola collegata da un ponte. E quando si arriva al ponte, nulla lascia presagire che su uno dei lati dell’isola, ai piedi della falesia, invisibile dal litorale, gli uomini di Sparta nascosero un villaggio. Cinto da mura, inespugnabile. Bellissimo. Già di per sé il luogo vale il viaggio. Ma entrando dalla porta principale del kastro, come è chiamato il paese, si scopre un microcosmo dove si può solo camminare, le auto sono bandite (i vicoli sono troppo stretti!), e lo si fa con meraviglia continua. Perché se a prima vista tutto è curatissimo, chic e somigliante a una Portofino medievale, con i negozi di gioielli e le gallerie d’arte che si contendono lo spazio, i tavolini dei ristoranti sulle terrazze che guardano il mare, i bar che diffondono musica chill out, poi basta fare una deviazione dalla via principale per essere catapultati in un mondo d’altri tempi, dove gli oleandri spuntano dai ruderi delle case, un pope ortodosso riposa sul sagrato della chiesa, le buganvillee prendono possesso di muri scarnificati dal vento e dal mare, i gradini consunti che salgono verso la rocca raccontano storie di ricchezze e rovine. Fianco a fianco, lo charme del moderno e il fascino dell’antico.

Incontro DimÍtris, che ha vissuto dieci anni in Messico e Romania e poi è tornato nella sua Laconia «perché anche la mia terra ha bisogno di nuove tecnologie», e così ha iniziato a progettare app e sistemi informatici per il turismo. Dimítris mi conduce quasi per mano nel labirinto di vicoli di Monemvasía, perché il paese è sì piccolo, ma più si gira, perdendosi e ritrovandosi, salendo in alto sotto il sole cocente, scendendo in basso a rinfrescarsi sugli scogli, più si scoprono chiese e terrazze, palazzi e giardini. «Oggi abbiamo 300 posti letto nel kastro, contro qualche migliaio a Géfira, la città nuova sulla terraferma» mi racconta. «Chi ha comprato qui quando il villaggio era disabitato ha fatto fortuna: oggi le case sono ambitissime dalle strutture di charme, anche se ristrutturarle costa un patrimonio e ogni lavoro è vincolato dalla Sovrintendenza archeologica locale». Nulla è lasciato al caso: ogni pietra viene rimessa al suo posto, ogni particolare discusso e curato nei minimi dettagli. «Bisogna avere pazienza, oltre che soldi, per investire a Monemvasía» sorride Dimítris. Ci riposiamo dal caldo sotto il pergolato di vite vergine del ristorante Matoúla, il primo ad aver aperto nel kastro, addirittura negli anni Cinquanta. «Sai che c’è anche un po’ d’Italia a Monemvasía? Una volta qui c’erano i veneziani, che l’avevano chiamata Malvasia» mi racconta Dimítris. «Sicuramente conoscerai il vino omonimo: ebbene, è originario di qui, non della Sicilia come tutti gli italiani credono». L’anno scorso l’hanno riproposto per la prima volta, dopo tre anni di invecchiamento in botte. Ne ordiniamo un bicchiere. La terrazza di Matoúla è la più bella del paese, non si andrebbe mai via.

Lungo la costa ovest del “dito”, a sud di MonemvasÍa, continuo a domandarmi dov’è finita la gente. La spiaggia di Plýtra e quella di Harahiá, gli scogli di Archángelos, le lunghe lingue di sabbia intorno a Neápoli: gli ombrelloni si contano sulle dita di una mano. Giusto qualche famiglia greca in vacanza, pochi stranieri, al massimo qualche inglese (di tedeschi neppure l’ombra: sembra che ce l’abbiano a morte con i greci, al momento...). Eppure siamo a luglio! Com’è possibile? «La gente arriva a metà mese e poi ad agosto» mi racconta Evangelía, che sul lungomare di Neápoli, a ridosso della spiaggia, ha aperto un locale dal nome perfetto: si chiama Mone-mone, ovvero “lento lento” (un termine marinaro, mi dice). Mi serve fiori di zucchina ripieni di formaggio, torta salata con feta e melanzane, e poi pesce. «Sono un’appassionata di pesca in apnea» spiega «vado fino a trenta metri per pescare le cernie». Si capisce perché l’orata profuma ancora di mare. 

Mi raggiunge Charálampos, che tutti chiamano Babis. è un avicoltore che esporta galletti biologici in mezza Grecia e poi, nel tempo libero, fa anche il chairman dell’ufficio del turismo, «perché non potevo sottrarmi all’amore che ho per la mia terra». Babis insiste nel portarmi a visitare le grotte di Kastaniá, poco lontano. Non sono un appassionato del genere, così nicchio un po’. Babis ci tiene, ripete qualcosa del tipo «sono tra le più belle del Peloponneso, di Grecia, d’Europa!». Addirittura. Però mi incuriosisce con la storia che sono state aperte al pubblico solo dieci anni fa, dopo che un contadino le aveva tenute nascoste al mondo per cinquant’anni: pare che non lo sfiorasse neppure il pensiero che potessero essere interessanti, almeno fino a quando vide una cartolina con altre grotte della zona e disse agli amici del bar «Ma le mie sono più belle!». Entro. La meraviglia: mai visti tanti colori vividi, mai tanta concentrazione di pilastri, colonne, stalattiti, cristalli in così poco spazio. Babis è contento. La sua era una carta vincente. 

Ma ha altri assi nella manica, Babis. Specialmente quando mi manda a nord. Ora, la gente prende il traghettino di fronte a Neápoli e sbarca sull’isola di Elafonísos, che è giustamente popolare per una delle spiagge più belle della Grecia, Simos beach (forse l’unica in questa zona che diventa discretamente affollata in alta stagione). Nessuno invece prosegue a nord di Monemvasía. Ecco, se non temete di affrontare tornanti che sembrano non finire mai; se volete scoprire luoghi dove relax sembra essere l’unica parola consentita dalla legge; se potete fare a meno dello struscio serale tra boutique e ristoranti; ecco, se avete voglia di tutto questo, incamminatevi sulla strada che porta al porto di Gérakas e a Kiparíssi, due villaggi che neanche le guide nominano. Il primo è uno spettacolare fiordo tutto verde dove attraccano i pescatori e i velisti e dove Vibeke, gentile signora danese che ha preferito la solitudine mediterranea alle comodità di Copenaghen, vi aspetta alla taverna To Remétzo; la seconda è un’ampia e spettacolare baia circondata da alte falesie grigie, dove le acque non conoscono paragoni e ci si trova sulla terrazza di Cavo Kórtia, in fondo al golfo, dove finisce la strada, a chiacchierare con la signora Nektaría e a gustare un’aragosta senza pensare al domani. 

Andando via, ripenso a Ann, Dimítris, Evangelía, Babis, Vibeke, Nektaría. Chi da Monemvassia non se ne andrebbe mai, chi è ritornato, chi ha scelto di viverci. Capisco il perché.     

Foto di Stefano Brambilla