Milano, c'era una volta la cassoeula...

Ma anche l’ossobuco col risotto, la cotoletta e gli altri piatti della tradizione meneghina. Oggi sempre più difficili da trovare. Tranne che in alcune trattorie in città e appena fuori. Che abbiamo provato per voi

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Il fumo, l’oste burbero, il vino da poco, i piatti poveri. Le carte, le scommesse, le litigate per una mano di briscola sbagliata.  Fuori, tanta nebbia. E i navigli. Questa era la Milano delle osterie, delle trattorie, cantata dai Gufi e Nanni Svampa, da Jannacci e da Gaber. Raccontata da Gianni Brera, Mario Soldati e Luigi Veronelli. Oggi quei luoghi sembrano non esistere più e rievocare quell’atmosfera è diventato un puro esercizio di nostalgia. Milano è trasfigurata. In questa nuova città cosa troveranno i milioni di visitatori dell’Expo dedicata al cibo? La vecchia cucina che fine ha fatto? Intanto, cerchiamo di capire che cos’era la cucina milanese. Da una parte si celebravano i riti dell’unica vera borghesia italiana: risotti arricchiti di zafferano, grandi bolliti, ossobuco con la gremolada (trito di limone, prezzemolo e aglio), rustìn negàa, nodini di vitello annegati nel vino, e cotoletta impanata. Dall’altra il popolo si nutriva di zuppe, polente, trippa e di quello che arrivava dalla campagna vicina: riso, verza, rane, lumache e gli scarti del maiale, base della pantagruelica cassoeula. E poi il vino. «Si beveva barbera, nebbiolo e bonarda», racconta Maida Mercuri, cresciuta sui navigli e da trent’anni patron del Pont de ferr, ristorante stellato con l’anima da osteria. È stata la prima a servire il barolo al calice: «Nelle vecchie osterie si accompagnava il bicchiere con salame, lardo e polenta fritta» racconta. «Oppure coi sottaceti e i peperoni con l’acciuga». Oggi si chiamerebbero taglieri, ma prima del raccapricciante fenomeno dell’apericena, le osterie erano già attrezzate alla bisogna. E poi c’erano le trattorie: «Si mangiava lo stufato, la busecca (trippa), piatti piemontesi o toscani, fritti misti. Alla fine si toglieva la tovaglia e si giocava a carte», ricorda. Piatti ora scomparsi erano il risotto in cagnun con la salvia ripassata in tonnellate di burro fritto o la zuppa povera con le coste, i crostini di pane e sopra un uovo. Ma esistono ancora i vecchi locali?

«C’è la Trattoria Milanese di via S. Marta, con l’oste burbero, i nervetti sott’olio e i pesciolini fritti. E fuori porta, alle Vigne del Pero a Bereguardo, vicino Pavia, ho mangiato polenta e lumache. Ormai una rarità». Ecco, il modo migliore per dare la caccia alle vecchie trattorie milanesi è chiedere a chi ne sa. E si scopre che sono sempre meno. Anche perché devono rispettare una formula precisa: prezzi bassi, porzioni abbondanti, servizio informale (è un eufemismo), piatti tradizionali e conduzione familiare. Una prima tappa può essere da Tomaso, in via de Castilla: grassi senza timidezze e piatti vintage come il manzo alla California. Poi conigli, polente, stufati e risotti. Il venerdì sera, dopo la cena, come una volta, si sbaraccano i tavoli e il locale diventa il ritrovo di prestigiatori e illusionisti. Altro luogo segreto è l’Osteria alla Grande in via delle Forze Armate: risotto ai funghi, cotoletta alla milanese, ossobuco con risotto, cassoeula, brasato e soprattutto una strana umanità ormai scomparsa nelle vie della movida. Se volete l’oste burbero, l’ordinazione scritta su un foglietto di carta e l’ambiente decisamente fané, provate a trovare un posto nell’affollata Trattoria dell’albero fiorito in un vicoletto dietro piazza Susa. Per verificare l’autenticità di questi luoghi basta guardarsi intorno e osservare la clientela. Oltre a qualche snob che crede d’avere l’esclusiva nella scoperta del locale, vedrete gente della zona: operai, pensionati e perditempo.

Poi ci sono gli indirizzi più famosi, come La pesa, con annesso bistrot, la Meneghina in corso Magenta e la Trattoria degli orti, per citare le più famose. La ricerca continua seguendo qualche autorevole consiglio. Alessandro Negrini è, con Fabio Pisani, lo chef del Luogo di Aimo e Nadia: oggi due stelle Michelin, in origine trattoria toscana. Valtellinese, Alessandro accompagna il suo maestro Aimo Moroni, un monumento della cucina italiana d’autore, a mangiare l’ossobuco col risotto Al matarel. I due macellai più bravi di Milano, Mauro Brun e Bruno Rebuffi delle Pregiate Carni Piemontesi, consigliano la Trattoria Masuelli San Marco, un nome che ricorre spesso tra i bene informati. Spiega Massimiliano Masuelli, proprietario con i genitori: «Vado io di persona a prendere i prodotti, come il riso dell’area del Sesia». E spiega che la formula “piatto enorme-prezzo minuscolo” non è più possibile. La tradizione è una bella cosa, ma lo è anche una buona digestione. «Rivisitiamo le ricette della nonna alleggerendole, usando prodotti di stagione e cercando di far capire ai nuovi clienti la nostra storia». Il problema però è che i più giovani ormai non reggono piatti come il fegato, il rognone, la cassoeula. «Non sono stati abituati a mangiare certe cose...». Però la loro pasta e fagioli con il cucchiaio in piedi (densissima!) mette tutti d’accordo.

Nell’universo del mangiare tradizionale a Milano non bisogna trascurare il mondo fuoriporta. L’editore Guido Tommasi, specializzato in sofisticati libri di cucina, consiglia Orlando a Cusago e l’Antica trattoria del gallo di Gaggiano. «È stata aperta nel 1870» racconta il proprietario Paolo Reina. «Questi posti erano il McDonald degli anni Cinquanta: si portava tutta la famiglia e si spendeva poco». Oggi rimane la stessa cura nel fare i ravioli a mano, selezionare il cotechino e scegliere i polli allevati a terra: «Per noi è come guidare un’auto d’epoca. Ma non si possono più fare i prezzi di una volta, quando le materie prime le trovavi a niente...». Lo conferma Paolo Marchi, critico gastronomico e inventore del congresso d’alta cucina Identità golose: «Ormai non è più una cucina contemporanea, adatta al gusto di oggi. È per questo che certe cose muoiono. Non è colpa di nessuno». E aggiunge: «Le trattorie di oggi sono i ristoranti cinesi». Insomma, «è Milano che è cambiata».
Allora non è più possibile mangiare alla milanese? Sì: un manipolo di giovani cuochi lotta per tenere viva una cucina in via d’estinzione. Ma con parametri attuali. Come la Trattoria del nuovo macello, dove gli chef Giovanni Traversone e Marco Tronconi propongono la loro strepitosa cotoletta (chiamata “coteletta”), alta, rosata, con o senza osso. Oppure il Ratanà dove Cesare Battisti sta facendo un grande lavoro di riscoperta e riproposta: i suoi risotti sono forse i migliori di Milano, ma il suo lavoro si estende nei territori del pesce d’acqua dolce, nella selezione del riso (carnaroli originale della Riserva San Massimo) e nel pane artigianale del guru Eugenio Pol. La sua è la nuova trattoria milanese: cotoletta (solo su ordinazione), mondeghili (polpette milanesi) e trippa ripensati per i palati moderni. Per ritrovare poi l’atmosfera e gli ingredienti della vecchia Milano, con una sensibilità contemporanea, basta andare lungo il Naviglio Pavese all’Erba brusca. La chef, Alice Delcourt, è franco-americana, ma gli ingredienti arrivano tutti dalle cascine vicine. Una crasi tra prospettiva internazionale e sapori locali che è forse la vera nuova autentica anima di Milano e della sua cucina.

 

Fotografie di Marco Garofalo