Il viaggiatore. Colette a Marrakech

Nel 1929 la scrittrice francese era in Marocco, ospite di un suo grande (e potente) ammiratore. Ripercorriamo con l’aiuto dei suoi scritti emozioni, aromi e sapori del suo soggiorno africano

«Contemplare qualcosa di abbacinante sotto un cielo marocchino prima di diventare totalmente una vecchia signora», questo era quello che Colette si augurava prima di partire per l’Africa. La scrittrice francese (1873-1954) e Maurice, suo futuro terzo e ultimo marito, di 16 anni più giovane di lei, erano stati invitati in Marocco dal pascià di Marrakech, Thami El Glaoui. Grande ammiratore della scrittrice, il Signore dell’Atlante aveva messo a disposizione della visitatrice i suoi ottanta cuochi che realizzarono, secondo la golosa autrice, «un poema in cento portate».

Passeggiava per palazzo mnebhi, oggi museo di marrakech, in place Ben Youssef, dove risiedeva il loro amico. «Chi può sapere, prima di entrarci, che si tratta di un palazzo? È un muro come tutti gli altri, ha il colore di un crepuscolo pallido, della terra, del cielo.» Dentro era incastonata una minuscola moschea riservata agli intimi. Poi, un corridoio scandito dal mosaico l’aveva portata davanti al padrone di casa, gentilissimo e riservato. Lo seguì attraverso vaste sale arredate con lunghi divani e sature del profumo del cedro. Uno stuolo di belle schiave nere «più lisce di qualunque frutto» scivolava nelle larghe gonne «come navi sul mare calmo». Alla fine della cena era iniziato lo spettacolo di una delicata danzatrice Chleuh, che si muoveva pizzicando un piccolo strumento a corda, mentre un’altra si concentrava su uno strumento con un archetto e una terza cantava. Poi, per raggiungere la camera da letto, Colette aveva dovuto salire tre piani di scale, sorretta da due schiave.

A Fes, la scrittrice era entrata dalla porta di bab el-guissa insieme a un toro nero e a una mandria di mucche. Tra la folla si notavano le pecore bianche e quelle nere, gli esili cavallini pomellati e i cammelli provati dagli stenti. Colette e il compagno giravano per la città di Fes sulla lussuosa limousine del pascià. Tutto era meno pittoresco di quanto si sarebbe aspettata: «Le strade segrete di Fes... segrete? Forse il segreto di Fes è che non nasconde nulla». La donna aveva osservato il pascià amministrare la giustizia, «il viso illuminato dai grandi occhi azzurri»: dopo contrabbandieri e stregoni, era stata la volta di un santone che rubava, dava scandalo e infastidiva gli ebrei. Malgrado i trenta rosari di bosso che gli scendevano fino ai piedi, doveva rendere conto al dignitario due volte al mese.

Nello sfarzoso palazzo di el Glaoui a fes, all’1 di rue Hamia Douh, Colette e Maurice avevano ai loro ordini domestici silenziosi e inappuntabili. Nella notte «il vento sollevava i sentori inquietanti delle rose, del gelsomino e della menta, mescolati a quello del caprifoglio». Già pochi giorni dopo il suo arrivo in Marocco, Colette aveva registrato la strana sensazione che l’aveva invasa: «Illusione di avere raggiunto una meta... sono arrivata sino alla fine... La fine di cosa? Vita? Desiderio? Movimento? Amore?».

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