Malesia a sorpresa

Johor, in eterna competizione con Singapore, è l’antitesi della vicina città stato. Paradiso di spiagge, di palme, di mare, di foreste e di ospitali villaggi

Tutto è cominciato con un invito a palazzo e ora mi ritrovo in viaggio verso la fine del mondo. La chiamano così gli abitanti la costa est della Malesia, quella caratterizzata da foreste di mangrovie, nota anche come Johor e punto di terraferma più a est dell’Asia. Un’area grande quanto un francobollo con un’altissima densità di parchi nazionali. Qui i cavallucci marini fanno il bagno con i granchi, mentre i martin pescatore cercano il pranzo tra i pesciolini del mare blu turchese. Intorno curiosi cartelli con massime in inglese: “Vivi felicemente nella natura selvaggia” e “Colui che conquista il proprio cuore conquista il mondo”.

Lo Stato di Johor, che si trova a un’ora dalla caotica e moderna Singapore, unito all’isola globalizzata da due ponti autostradali, è il più a sud tra gli 11 che compongono la Malesia ed è senza dubbio il più variegato sia dal punto di vista naturalistico sia da quello etnico. Fittiziamente nominata così da commercianti arabi che usarono la loro parola “gioiello” per definire l’area, mantiene la doppia identità: da una parte landa poco conosciuta con mare, isole, foresta pluviale, dall’altra fiero regno

Avrei potuto non scoprire mai Johor  se non per uno strano caso della vita. Otto anni fa, mentre ero a bordo di un treno in India, sono stato avvicinato da un’elegante donna orientale il cui figlio mi aveva scambiato per un presentatore della tv. Suo marito, in alta uniforme, poi mi ha spiegato che erano arrivati lì dalla Malesia per incontrare l’altro figlio, quello più grande che stava facendo il servizio militare. Stavo per dirgli che pure io vivevo in Malesia ma un grosso bodyguard mi ha intimato di rivolgermi a lui con l’epiteto Sua altezza reale. Stavo parlando con Raja Zarith Sofiah e Tunku Ibrahim Ismail, la principessa e il principe di Johor, attualmente sultano (è salito al trono lo scorso 23 marzo, ndr). Dopo quell’incontro mi hanno invitato più volte a palazzo e ho avuto anche la possibilità di seguire il sultano nel suo annuale Kembara, una parola malese che indica qualsiasi tipo di viaggio, reale o spirituale, che a suo tempo il futuro sultano faceva in giro per lo Stato in sella a una moto. Ora ho deciso di intraprendere il mio personale Kembara per scoprire una Johor meno ufficiale.

Come per molti viaggiatori la mia porta d’ingresso è Johor Bahru, la capitale dello Stato. La città vive da sempre una sorta di competizione con la vicina e scintillante Singapore dove, ogni giorno, migrano 200mila pendolari. Eppure camminando per le sue strade emerge un’originalità indiscutibile. La prima cosa che colpisce è la varietà a tavola. In pochi minuti la mia guida mi fa assaggiare una torta di ostriche, uova, salsa di soia e farina di tapioca, pesce avvolto in una foglia di banana e condita con la salsa piccante locale detta sambal, riso con agnello, più altre succulente specialità locali.
La seconda cosa che salta all’occhio è la mescolanza etnica, ancora più evidente che nel resto della già multietnica Malesia. Templi buddisti, sikh, hindu sono allineati lungo la via principale. Coesistono bazar cinesi, barbieri indiani e rilassati bohemien malesi. Fondata nel 1855, la città divenne spettacolare grazie alle ambizioni anglofile del sultano Abu Bakar (in carica dal 1885 al 1895, ndr). Per questo una serie di monumenti in stile più vittoriano che asiatico si affaccia sullo stretto di Johor, costruiti per impressionare. Come la bianca moschea. Dai suoi minareti (progettati per assomigliare a torri dell’orologio vittoriane) si gode una bellissima

 

Ma per immergermi meglio nella storia decido di guidare un’ora e mezzo verso nordest, verso Johor Lama (la vecchia Johor). Su una collina scovo i resti, pochi in effetti, di un antico forte del 1540, distrutto dai portoghesi nel 1587, dai quali la vista spazia sul fiume Johor. Un piccolo antipasto di quello che mi aspetta lungo tutta la costa est dello Stato. Mi immergo in una sorta di trompe l’oeil tropicale. Una volta arrivato a Mersing cerco una piccola imbarcazione per andare a scoprire alcune isolette disabitate non lontane dalla costa. Ogni isolotto è la trasposizione dal vivo di una cartolina classica di un paradiso: sabbia bianca, mare blu, una palma. A Rawa decido di fare dello snorkeling, ma c’è troppa gente (in effetti pochi turisti). Passiamo all’isola di Pulau Besar, ma non mi convince. Pulau Aur è per immersioni serie, quindi opto per Pulau Tinngi dove finalmente trovo il mio idillio. L’acqua è di un blu carta da zucchero e c’è pure una cascatella dalla quale tuffarsi. I pochi abitanti del villaggio mi accolgono con un sorriso anche se preoccupati per il destino della loro isola sempre più spopolata visto che i giovani migrano verso Singapore. Ma è tempo di tornare sulla terraferma.

Decido di ritornare nella capitale per dirigermi verso la costa ovest. Non prendo l’autostrada, ma un percorso litoraneo che mi permette di attraversare piccoli paesini di pescatori dominati da semplici moschee blu e palme. Ma la più bella città che incontro è Muar. Pur conoscendo il suo passato coloniale non potevo proprio aspettarmi tanta grandeur. A cominciare dall’enorme moschea metà in stile occidentale metà moresco; poco distante c’è anche una torre dell’orologio, un edificio che ospitava la vecchia dogana inglese e una banchina dove non è difficile immaginare sudditi della regina d’Inghilterra a passeggio in abiti eleganti. Cuore di tutto il quartiere che ruota intorno alla cosiddetta Glutton Street, la via degli ingordi...

 

Mangio un piatto dopo l’altro nella speranza che tutto questo cibo mi dia la forza per fare un percorso di trekking attraverso il parco nazionale Endau Rompin, 300 miglia quadrate (774 chilometri quadri) di natura selvaggia e colline al confine dello Stato nord di Johor. Quando sei nato e cresciuto nell’Upper West Side di New York non entri in una foresta di cento milioni di anni con leggerezza. Non senza repellente per gli insetti quanto meno. Ma esplorare il parco si rivela una questione più facile del previsto. Arrivo giusto in tempo per salire su un’imbarcazione per un rilassato e rilassante viaggio sul fiume Endau fino alle cascatelle che conducono al percorso principale di Kuala Jasin. Con queste colline verdi e un sottobosco intenso lo scenario non è proprio da cartolina ma, in effetti, molto preistorico.

Nel parco ragazzi del villaggio di Kampung Peta fanno da guida per i turisti. Il mio mi dice «la prossima volta puoi venire a casa mia per un vero assaggio di giungla. Solo noi popolo originale di questa zona sappiamo scovare foglie ed erbe speciali che mia mamma sa cucinare!». Non mi stupisce quindi quando pochi minuti dopo individua un’impronta di un elefante ben nascosta nella boscaglia. Da parte mia sono già contento di avvistare scimmie e cinghiali. Imparo persino a togliermi sanguisughe dalle caviglie piuttosto alla svelta. Guado tranquillamente i ruscelli che attraversano il circuito di 16 miglia (circa 25 chilometri) che conduce alle pulitissime cascate attraverso la foresta pluviale che si fa sempre più densa e avvolgente. In una sola giornata, questo posto mi riporta a uno stato primordiale.

Dai palazzi alla foresta tropicale, a volte la vita, il più grande Kembara di tutti, conduce in luoghi completamente inaspettati. Luoghi come il multiculturale Johor, né preconfezionato né compiacente, ma miscuglio dove chiunque alla fine può sentirsi a casa.     

Fotografie di Justin Guariglia