di Barbara Gallucci | Foto Archivio Storico Touring Club Italiano
Oltre 50 anni fa un giovane Italo Calvino partiva in nave alla scoperta di New York e segnava tutto nei suoi taccuini. Che cosa è cambiato e cosa resta di quella “città elettrica”? Siamo sbarcati a Manhattan
ESCLUSIVA WEB. Guarda a destra la presentazione di Barbara Gallucci, autrice dell'articolo.
«Prime definizioni di New York: è una città elettrica, impregnata di elettricità, dove ci si carica di corrente a ogni passo, dove si prendono scosse ovunque si posi la mano... Una carica elettrica trascorre dalle cose al ritmo dei giorni, ai sentimenti, ai rapporti». Succede a Manhattan, salendo sulla metro o su un taxi, di prendere la scossa. Potrebbe essere il vento frequente e tagliente delle giornate invernali e primaverili, oppure derivare dalla carica umana che popola la città. È una delle prime cose che Italo Calvino annota nei suoi appunti raccolti durante un lungo soggiorno nella Grande Mela che fece tre il 1959 e il 1960 grazie a una borsa di studio della Ford Foundation. In Italia era appena stato pubblicato Il Cavaliere inesistente, ma abbracciò con entusiasmo la sua avventura americana e, in principio, era pronto a trasformare anche questi pensieri e corrispondenze in un libro. Nel 1961, a volume quasi pronto e con il titolo già scelto, cambiò idea «perché rileggendolo in bozze l’avevo sentito troppo modesto come opera letteraria e non abbastanza originale come reportage giornalistico». Lo scorso ottobre la moglie Esther ha deciso di condividere con il mondo questi appunti pubblicati da Mondadori. Un regalo prezioso perché non c’è nulla di modesto o poco originale in questo volume che anzi si è trasformato in una preziosa guida di viaggio per scoprire la New York di allora e quella di oggi. Esattamente trent’anni fa Calvino moriva mentre stava lavorando alle celebri Lezioni americane che di lì a poco avrebbe dovuto tenere all’università di Harvard. Quindi una cosa è certa, il legame tra l’intellettuale e il mondo americano rimase indissolubile «qualcosa di simile a un innamoramento» come scrisse più volte. Con una predilezione per la Grande Mela che lo condusse a scrivere in una delle corrispondenze per il settimanale ABC: «Io amo New York e l’amore è cieco. E muto: non so controbattere le ragioni degli odiatori con le mie... Farò scrivere sulla mia tomba, sotto il mio nome, ‘Newyorkese’?». Sulla sua tomba al cimitero di Castiglione della Pescaia non c’è scritto ‘Newyorkese’, ma dalle sue cronache quell’amore si vede tutto. Ed è bello condividerlo.
Giunse in città in piroscafo, insieme «ad anziane coppie di coniugi annoiati» in una mattina diafana osservando con un primo turbamento le luci dei grattacieli che si andavano spegnendo. Quel porto che accoglieva migranti e viaggiatori, oggi vede in fila alcune grosse navi da crociera (con a bordo probabilmente figli e nipoti delle stesse coppie con le quali aveva viaggiato lui da Le Havre) e qualche nave cargo carica di container impilati come in una costruzione di lego di un bambino con poca fantasia. Il panorama che gli si staglierebbe di fronte adesso ha alcuni punti fermi e novità impressionanti. Allora come oggi non ci sono le Torri Gemelle, ma oggi come allora continuano a essere simboli cittadini l’Empire State Building e il Chrysler Building. Ora però il One World Trade Center con i suoi 104 piani e 541 metri di altezza domina un po’ la scena e, ogni giorno, sono tante le persone che si mettono in coda per salire fino all’osservatorio del 102esimo piano inaugurato la scorsa primavera.
La sua ombra lunga non arriva fortunatamente fino alla zona della città che Calvino scelse per viverci e diventare, a suo modo, americano. «Forse faccio male ad abitare al Greenwich Village... Il Village vuole fare Parigi, Rive Gauche, ma in fondo è una somiglianza involontaria che da quando è stata scoperta fa di tutto per farsi credere volontaria. Forse somiglia di più a Soho, anche perché i ‘nativi’ del Village sono italiani, famiglie meridionali stabilite qui da cinquant’anni e più». Non l’ha esattamente scelto, ma ci è capitato «E non perché è il quartiere degli intellettuali, ma è proprio perché tornando qui ogni sera che mi sento perfettamente inserito». Il Village di oggi ha una doppia faccia: quella diurna mescola quasi indistintamente turisti e famiglie, anche omosessuali, intellettuali e modaioli, mentre quella notturna è tuttora tra le più vivaci con decine di locali e ristoranti dove l’eredità bohèmien che durante il soggiorno di Calvino si stava trasformando in beatnik (poeti e cantanti alternativi come Bob Dylan stavano per sbarcare anche loro al Village) ha un volto più borghese, ma comunque da scoprire. Calvino se ne appassiona talmente tanto da dare persino consigli di visita ai suoi amici newyorkesi distratti: «Ma come, non sapete che lì girato l’angolo c’è Patchin Place, un cortile rimasto intatto dal tempo in cui c’erano le scuderie (c’è un cancello, ma è aperto di solito, ndr)? Non conoscete la casa più vecchia di New York a Bedford Street (si trova al numero 77 e ha 214 anni. Ci visse anche l’ex moglie di Yul Brinner, ndr)? Non avete mai visto i lampioni a gas in MacDougal Alley (anche qui c’è un cancello, ma aperto, anche se i lampioni ora sono a led. All’angolo con Bleecker Street si trovava il celebre San Remo Cafè frequentato da Kerouac, Pollock, Burroughs, ndr)?”. Un villager doc Calvino, anche se ci rimane pochi mesi, sembra conoscerne ogni centimetro quadrato. Conosce persino quello che c’era prima e ora non c’è più.
New York, allora come oggi, non solo è elettrica, ma cambia alla velocità della luce. Eppure alcune costanti rimangono. «Ogni città ha una strada che ospita rottami umani; la Bowery resta la più nota, anche se ora ha un aspetto molto più ripulito di quel che dicono avesse un tempo», parole che potrebbero essere state scritte ieri, visto che seppur migliorata e arricchita dall’interessante museo d’arte contemporanea New Museum, catalizza i pochi homeless rimasti in città. Un’altra costante sono proprio i musei la cui qualità è indiscutibile e in ampliamento continuo (basti pensare alla recente inaugurazione della nuova sede del Whitney Museum che ospita una collezione straordinaria di arte americana). Calvino li chiama i musei marziani: «Il più americano dei musei è quello dei Cloisters: americano nel senso che solo qui poteva venire l’idea di costruire un edificio con pezzi di conventi spagnoli, castelli della Loira, vetrate di cattedrali gotiche, chiostri, tombe, colonnati, tutta roba ‘vera’ trasportata dall’Europa. Un concentrato di passato, di tutto ciò che l'America non ha avuto e che ora, per un miracolo finanziario e fiscale e organizzativo, improvvisamente riceve». Arrivarci con la metro o il bus è un’esperienza di per sé formativa. Sedersi in uno dei chiostri ad ascoltare stupori e bisbigli di studenti e turisti americani completa la visita, senza nulla voler togliere all’edificio che in alcuni punti ricorda terribilmente la chiesa di S. Ambrogio a Milano. «All’estremo opposto, altrettanto americano è il Guggenheim, su disegno di F.L. Wright: una gigantesca vite o asse di tornio, sormontata da una cupola di vetro; dentro si arrampica un unico ballatoio a spirale dalle cui pareti bracci di ferro protendono i dipinti della più famosa collezione d’avanguardia». I «bracci di ferro» non ci sono sempre. A volte le installazioni degli artisti contemporanei sono appese direttamente al soffitto. A volte riempiono lo spazio solo con parole e numeri ripetuti all’infinito. Però è certo che il Guggenheim continua a interpretare l’essenza dell’avanguardia architettonica e culturale mondiale.
Un’altra costante newyorkese che Calvino nota è quella della forza e indipendenza di quelle che chiama le «ragazze sole», oggi note come single: «Sono le prime che danno sale alla vita newyorkese, che muovono i fili della città, dalle scrivanie degli uffici fino alle cinque del pomeriggio, e dopo le cinque in ogni ristorante o ritrovo o party privato». La serie televisiva Sex and the city non ha raccontato niente di nuovo quindi? A leggere Calvino parrebbe proprio di no.
Tra le cose che troverebbe forse cambiate, oltre agli evidenti mutamenti del paesaggio (ma della questione della speculazione edilizia a New York lui stesso se ne rese conto già allora), Wall Street, la borsa finanziaria più famosa al mondo, dove oggi non potrebbe nemmeno entrare, e dove telefoni e telescriventi sono stati sostituiti da computer e internet. Sono cambiati anche quelli che Calvino definisce gli «espresso-places», luoghi per bere il caffè italiano in un contesto «dove l’atmosfera italiana è creata con la semioscurità, i tavolini di marmo, i busti di imperatori romani, le croste di quadri pseudo rinascimentali, un altoparlante che canta pezzi d’opera». Calvino non se la spiega, ma forse si spiegherebbe anche meno la possibilità di scegliere tra 113 tipi di caffè diversi promessa da una nota catena di caffetterie americana presente in media ogni tre isolati a Manhattan. Probabilmente lo stupirebbero molto proprio i nuovi emigranti italiani. Quelli di allora li descrive con tristezza: «ancora negli occhi dei figli dei figli è rimasto qualcosa di cupo e sbigottito, come se non fossero liberati del tutto della tensione di diffidenza dei primi anni dopo lo sbarco». Gli italiani di oggi sono diversi. Progettano musei, come Renzo Piano con il Whitney, dirigono importanti gallerie, come Massimiliano Gioni al New Museum, o parchi sospesi come la High Line i cui progetti sono curati da Cecilia Alemani, gestiscono la collezione di design del Moma come Paola Antonelli. Più che avere lo sguardo intimorito si sono innamorati, come Calvino, della città elettrica. Che regala sempre scariche di energia.