Provenza. Essenza di Francia

Ovunque campi di lavanda. Una coltivazione che fa parte integrante del paesaggio locale, ma rappresenta un’eredità di tutto il Paese

Può un pezzettino di carta spingere a fare un viaggio dall’altra parte del mondo? Mentre guido in un luminoso pomeriggio d’autunno lungo l’Autostrada del Sole francese continuo a pensare al potere del biglietto da visita che conservo in tasca e che indica i nomi di “M et Mme Maurice Reboul”, produttori e distillatori di oli essenziali, stampati sull’immagine di un campo di lavanda. Cinque anni fa il signor Reboul mi aveva dato il suo biglietto proprio in un campo di lavanda. Stavo guidando e mi ero fermato per chiedergli informazioni e fare due chiacchiere. «Ho 47 anni e sono contadino e distillatore da tutta una vita», mi raccontò spiegandomi che nel 1947 fu suo nonno a inaugurare la distilleria che oggi conduce insieme al cugino. Io gli riportai la mia perplessità nel vedere come questa bellissima zona della Francia fosse completamente priva dei segni del turismo di massa e lui, ridendo, mi rispose «Eh sì, la Provenza è leggendaria, ma noi provenzali no!». La conversazione di neanche dieci minuti si concluse con la consegna del suo biglietto da visita accompagnata da un invito a tornare durante il raccolto. Da allora quel biglietto da visita è rimasto sulla mia scrivania a San Francisco come se fosse una sorta di talismano, da osservare con occhi sognanti durante le grigie e nebbiose giornate d’inverno immaginando cieli sereni e contadini amichevoli.

È caldo e limpido durante l’ora e mezza di viaggio dall’aeroporto di Marsiglia verso la Drôme Provençale dove ho programmato di fermarmi vicino alla città di Grignan. Faccio una sosta per bere qualcosa nella piazza principale di Saint-Paul-Trois-Châteaux. A fare da colonna sonora il rumore dell’acqua di una fontana e il frinire delle cicale. In un attimo mi ritrovo nella stessa situazione che ho lasciato cinque anni fa. Solo il meteo è tutta un’altra storia. Al telefono il signor Reboul mi ha appena detto che l’indomani, domenica, non si lavora in distilleria e il lunedì successivo è prevista pioggia, quindi mi rimane solo il martedì prima di partire. La realtà di un coltivatore di lavanda non è come nelle immagini da cartolina. Ne approfitto per scoprire la zona andando a cena a Vinsobres, un villaggio di produttori di vino affacciato sul fiume Eygues, dove sperimento una zuppa di pesce e una specialità provenzale e base di vitello e pomodori, e poi finisco per capitare casualmente alla festa di paese di Solérieux, tra cene, balli e tornei di pétanque. Mi si avvicina un bambino che mi chiede: «Vivi qui?». Gli rispondo che no, non vivo qui, ma vorrei.

 

 

«La lavanda è parte integrante del paesaggio provenzale, ma fa parte dell’eredità culturale di tutta la Francia», racconta Odile Tassi mentre visito la sua fattoria sull’altopiano di Clansayes. Odile era un’esperta di marketing e lavorava a Lione, oggi coltiva lavanda per preparare la sua personale linea di prodotti per la salute e la bellezza. In realtà l’ho raggiunta in ritardo perché girovagando ho perso il senso del tempo. Prima in un mercato all’aperto a Nyons, poi con un pic nic in campagna e, infine, in un mercatino delle pulci. Sono comunque l’unico partecipante al tour di visita alla sua azienda. Odile mi dice subito di annusare tre fialette diverse di oli essenziali alla lavanda e mi chiede quale preferisco. Il primo ha un aroma affilato, il secondo è quasi inodore, quindi scelgo il terzo, un profumo di lavanda classico. «Si chiama Lavandin, un ibrido naturale che è un mix tra le altre due che hai annusato», spiega Odile. Si semina qui dal 1930. Passeggiamo nei campi a riquadri viola e blu alternati dal giallo del grano e dalle vigne. Purtroppo poi comincia a piovere, come previsto d’altronde.

 

Smette solo il giorno prima della mia partenza. Vado a visitare il Domaine de Bramarel, una proprietà fuori da Grignan dove incontro il cercatore di tartufi Gilles Aymes, i suoi due labrador Ebel e Aria, addestrati per la ricerca dell’età di nove settimane, e un gruppo di visitatori accorsi per seguire una lezione sui tartufi. «I tartufi, fino al 1850, crescevano solo selvaticamente, poi un gruppo di persone, compreso il mio bisnonno, ha trovato il modo per stimolarne la crescita vicino alle querce e ad altri alberi. Da allora, anche se in molti associano il tartufo francese alla zona del Perigord, qui in Provenza ne produciamo più che nel resto del Paese», racconta Gilles e ancora una volta mi domando perché questa regione sia fuori dai circuiti più battuti. Verso la fine della giornata finalmente mi dirigo verso la distilleria di Maurice Reboul che si trova su un sentiero nei pressi di Montségur- sur-Lauzon. Appena giro l’angolo mi accorgo che non esce vapore dai comignoli. «I campi sono ancora troppo bagnati per procedere con il raccolto», mi dice subito Reboul, «credo che la distilleria non sarà in funzione fino a domani nel tardo pomeriggio, o dopodomani». Non importa veramente. La mia fantasia cresciuta intorno a un semplice biglietto da visita potrebbe apparire delusa. Ma viaggiando la realtà supera di gran lunga la fantasia, è più interessante anche se zuppa di pioggia, con raccolti rimandati e distillerie non operative. Per un’ora mi aggiro tra fiale e valvole grazie alle quali si estraggono gli oli dai fiori. Ascolto Reboul descrivere sia le soddisfazioni di una produzione come la sua, sia le preoccupazioni dell’essere agricoltori. Stesse ansie che aveva condiviso con me Odile Tassi. Entrambi mi hanno regalato uno scorcio reale delle loro vite. All’ultimo gli mostro il suo biglietto da visita che porto con me. Scuote la testa e sorride pensando alla follia di questo strano americano che l’ha conservato così a lungo e del quale non si ricorda nemmeno. Me lo rimetto in tasca, poi lo ripiazzerò al suo posto sulla mia scrivania di San Francisco. In realtà non mi serve più davvero.
La vividezza della memoria e il calore delle sue connessioni reali, sovrasta anche questo prezioso souvenir.

Foto di David Bacher