di Simonetta Agnello Hornby
Devastato da una tromba d’aria lo scorso anno l’orto botanico è stato riaperto grazie ai fiorentini. Fu fondato nel 1545 da Cosimo I signore di Firenze, due anni dopo quello di Pisa, su suggerimento del medico e naturalista Luca Ghini
Domenica 16 maggio ero a San Marco, vicino all’orto botanico di Firenze, il Giardino dei Semplici, parte del Museo di Storia naturale dell’Università. Ne sapevo ben poco, tranne che nonostante fosse antico era stato aperto al pubblico solo nel 1929. La bigliettaia mi informò che il 19 settembre 2014 una tromba d’aria aveva devastato il giardino; era rimasto chiuso per lavori e la riapertura sarebbe stata il 21 maggio; nel frattempo avrei pagato il prezzo ridotto di 3 euro per visitarlo. Nonostante lo sconto pensavo di rinviare la visita. La ragazza aggiunse: «Abbiamo fatto di tutto per salvare le piante e riaprirlo...». Tirai fuori il portamonete. Su suggerimento del medico e naturalista Luca Ghini nel 1543 Cosimo I, signore di Firenze, creò a Pisa il primo giardino botanico del mondo allo scopo di fare studiare dal vivo le piante medicamentose agli studenti. Due anni dopo, ne aprì uno a Firenze: il Giardino dei Semplici. Modificato nel Settecento, il disegno originale del Tribolo ne mantiene la geometria. Lo immaginavo com’era stato prima della tromba d’aria: pieno di alberi maturi, di arbusti e piante. C’erano pochi adulti e qualche bambino. Giravo sola, assorta. Pian piano incominciai a sentire il Giardino dei Semplici. In parte vuoto e sofferente, certamente non era vinto dalla crudeltà della natura. «Abbiamo fatto di tutto per salvare le piante e riaprirlo» aveva detto la bigliettaia. Dovunque notavo l’immenso lavoro di amore e di inventività di chi lo ha pulito e, in sette mesi, ripristinato.
Ogni spazio aveva mantenuto il suo nome. Mi attirava il giardino storico, un aiuola di rose. Sparse qua e là, le rose antiche, alcune malandate, altre con le cicatrici del vento malefico che ne aveva spezzato i rami, altre ancora in piena fioritura testimoniavano la ripresa del giardino. I colori tenui, la forma ovoidale dei boccioli, i fiori maturi e piccini dai petali tondeggianti, e perfino quelli appassiti mi ricordavano i mazzi di fiori dei quadri del Settecento. Tutte le rose salvate e in fiore erano profumate, ciascuna esalava un profumo distinto, tranne un cespuglio dal nome di rosa fetida, del 1768. Quello non aveva alcun bocciolo. Poggiato ad arte in un angolo brullo, un annaffiatoio vecchio dal manico rotto mi ricordava l’ironia del fiorentino e il suo amore del bello. Altrove, su terreno privo di piante, vasi di orchidee disposti a semicerchio, sembravano donne anziane e chiacchierine pronte a godersi il sole. Alcune orchidee erano in fiore, le foglie grosse e lucide. Le felci invasate occupavano un grande spazio di terra scura. La varietà delle forme e i colori delle piante spiccavano contro il terreno nudo. Il fogliame di alcune era sciupato, ma altre rigogliose e inconsuete formavano una magnifica massa di verde. Girando riscontravo la stessa attenzione nel disporre le piante negli spazi ora vuoti, come se seguissero una specifica scenografia.
Non tutto il giardino dei semplici è stato distrutto. In uno spazio quadrato mi imbattei in quattro alberi dai tronchi possenti, altissimi e rigogliosi. Sono i giganti di tre continenti che hanno sfidato e vinto la tromba d’aria: due Cupressus sempervirens nostrani, una Zelkova crenata del Caucaso, e una Gleditsia triacanthos dagli Usa. In un altro spazio quadrato una grande colonia di bambù maturo non sembrava aver subito alcun danno. Qua e là, alberi isolati o in gruppi hanno evitato la sorte degli altri. Numerose piante salvate erano esposte negli spazi esterni in formazioni geometriche; i vuoti delle aiuole erano riempiti con piante invasate disposte ad arte, simbolo di speranza e di indomita energia. Tutto ciò è dovuto al lavoro del personale, dei tanti volontari e dei cittadini che hanno raccolto un bel po’ di fondi e continuano a fare donazioni. Un esempio di civiltà e impegno civico che conforta. La cura delle piante danneggiate è commovente: come persone, sono sostenuta da stecchi; i frutti sembrano esser stati lucidati a mano, il fogliame rimasto è pulito. Le due serre hanno sofferto meno del giardino. Erano pulitissime: non c’era un grano di polvere o di terriccio sul pavimento. L’attenzione al dettaglio, meticolosa; nuovi cartelli, scritti in caratteri chiari e con linguaggio semplice; le targhe di metallo in braille, lustrate a nuovo. Ogni orto botanico mi racconta qualcosa sulla città in cui si trova. Il Giardino dei Semplici di Firenze mi insegna che alle difficoltà e agli imprevisti climatici non ci si deve mai arrendere. Bisogna reagire come hanno fatto i fiorentini, con vigore, con rinnovata energia, e con immaginazione. Cogliendo al balzo l’opportunità per cambiare e migliorare. Ma c’è di più da imparare. Firenze è la città più ricca di giardini d’Italia. L’amore per la natura è un aspetto dei fiorentini che ignoravo. La rinascita del Giardino dei Semplici non sarebbe stato possibile senza il loro intervento. E oggi la sua bellezza è dovuta al fatto che i fiorentini trattano la natura come se fosse un’altra forma di arte. Non è un caso che il piccolo Giardino dei Semplici e il giardino di Boboli sono ambedue creature di un grande architetto giardiniere, il Tribolo.