di Marco Zucchetti | Fotografie di Lorenzo De Simone
Ciclabili e centri sportivi, passeggiate e attracchi: dopo anni la città lombarda riconquista il grande fiume a lungo dimenticato. E dal 18 a 20 settembre ospita la terza tappa di Io sono il Po
L’ideale è lasciarsi alle spalle l’ombra lunga del Torrazzo e la cartolina medievale della piazza del Duomo, seguendo le orme di quei cremonesi che nel 1854 inaugurarono la «Strada-passeggio» che portava il confine della città fino a dove l’acqua lo permetteva. A chi cammina così, oltre il Teatro Ponchielli, il grande fiume suona come una presa in giro della toponomastica. Si scende lungo quella passeggiata che ora si chiama viale Po, si incrociano via Navigatori padani, via degli Arenili, ma tutto sembra fuori posto: non si avverte brezza, non si intravede un’ansa tra i villini, figuriamoci il mitologico Eridano. Eppure i cartelli stradali – con la loro lingua naif di ondine azzurre, barche a vela, canoe e navi container – insistono a indicare moli e attracchi. Miraggi che ancora a duecento metri dal fiume, quando nella via del Porto tutto è robinie e macchine parcheggiate, faticano a essere plausibili. Poi, approfittando di una distrazione tra due pioppi, ecco il Po che fa capolino come un nonno burbero che viene tenuto un po’ in disparte, per timore di una sfuriata o per paura che racconti anche ad altri le storie che ci ha regalato.
Cremona è gelosa del suo fiume, sul quale fu fondata dai coloni romani e grazie al quale è stata anche tanto ricca e sfacciata da sconfiggere i signori di Milano. Sull’acqua si affrettavano i mercanti, scendevano le chiatte e lavoravano le draghe. Dal fondale – come nell’ex stabilimento della Piarda Guidotti nella vicina Gerre de’ Caprioli – i ghiaiadori estraevano tonnellate di materiale da costruzione che ha costituito le fondamenta di mezza città. Sulle rive esiste da sempre un porto fluviale che è attualmente il più attrezzato sul Po e che – 280 km a ovest della foce – rappresenta il punto di maggior penetrazione del corridoio Adriatico. Nelle vicinanze sorgono le più importanti imprese del territorio, dalla dolciaria Sperlari all’acciaieria Arvedi fino alla vecchia raffineria Amoco-Tamoil. Inutile pensare di poter rinnegare o ignorare quel che per Carlo Cattaneo era un «deposito di fatiche»: il Po è stato per secoli il Klondike dal quale Cremona ha pescato il suo oro, commerciale o imprenditoriale che fosse. Persino oro nella sua accezione letterale, con i pittoreschi cercatori di pepite e pagliuzze che si dilettavano coi setacci a inizio Novecento, a costo di passare per i matti del paese.
Eppure qualcosa trattiene i cremonesi dall’amare indiscriminatamente il loro ingombrante colosso d’acqua. È quella atavica diffidenza che ogni bambino comincia a provare da piccolo quando, con il naso incollato al finestrino, attraversa in auto il ponte, magari verso il paradisiaco negozio di giocattoli che lo aspetta dopo l’ordinato pioppeto di Castelvetro Piacentino. Tutti guardano giù verso i fiotti, che a novembre fanno più paura dei lupi delle fiabe, e restano segnati per sempre. Quando si è piccoli poco importa che nel 1892 quel ponte doppio fosse il più lungo d’Europa nel suo genere e che oggi – dopo i bombardamenti degli alleati, l’incuria e il lungo restauro – vi transitino ventimila veicoli al giorno. Quando si è piccoli restano in mente solo due cose: i mulinelli spaventosi che intagliano la superficie e le mamme che ripetono aneddoti di crampi mortali, fondali sabbiosi che franano e corrente traditrice.
D’altronde se nel Parco Po un busto ricorda Giovani Carnovali detto “il Piccio”, pittore «travolto dall’acqua un lontano mattino di luglio per un’ansia antica di pace e silenzio fluviale», si capisce subito perché Giovannino Guareschi lo definiva «cimitero di acque morte». Lo ha tratteggiato anche il pavese Gianni Brera nella sua Invectiva ad Patrem Padum, questo fiume che nel suo tratto medio si fa sinuoso e subdolo, quasi fosse «pericolosamente ubriaco dopo aver attraversato troppe colline da vino». Ma soprattutto lo racconta la storia: la strega di Ostiglia bruciata dopo l’alluvione del 1492, la piena del ’51 (disastro del Polesine) e quella più recente ma meno tragica del 2000 (livello record di 10,40 metri); e ancora le magre avvilenti che guastano i campi e desertificano l’area golenale, perfino un iceberg rimasto incastrato nel ponte in un lontano 1929 in cui Cremona si travestì da Scandinavia. Sarà pure la «seconda ascissa europea» dopo il Danubio, ma è meglio non dare al Po troppa confidenza.
Però i cremonesi, lombardi per diffidenza ma quasi emiliani per indole godereccia, alla fine se ne sono fatti una ragione. E nonostante gli annegati, di fatto hanno imbastito attorno al fiume secoli di buon vivere, facendone la quinta perfetta del loro tempo libero. Monumento derelitto al «Po da vacanza» sono le Colonie Padane, centro elioterapico fatto costruire dal ras fascista di Cremona, Farinacci, nel ’36. Un edificio curioso, a forma di poppa di nave, dove nel Ventennio i bimbi passavano l’estate e dove attualmente – nonostante la struttura versi in semi abbandono – lavora una discoteca e si tengono i raduni del MotoRock, le Feste dell’Unità e le Giornate della musica. Ma non di sole piscine viveva l’estate del Po. Dopo decenni di anse rettificate e lavori di canalizzazione che hanno reso l’alveo più regolare, navigabile e veloce, gli “spiaggioni” sono quasi scomparsi. Resta giusto quello della Luna, nella vicina Bosco ex parmigiano, meta prediletta dei giovani appassionati di grigliate estive. Però fino agli anni ’70 i lidi di sabbia bianchissima erano tanti, una riviera a tutti gli effetti. Ora c’è la Capannina coi suoi cocktail, mentre cinquant’anni fa le famiglie facevano il bagno alla lanca del Lissandroon, regno del corpulento Alessandro, uno dei tanti proprietari di “baracchini” dove godersi il merendiin: ombra, bianco frizzante, salame e boss e zerli, i pesciolini fritti. Bagnini e ombrelloni spuntavano ovunque, si beveva l’acqua che sgorgava dalla spiaggia, nessuno si lamentava per la sabbia nella granita. I ragazzi attraversavano a nuoto il Po dal vecchio deposito di carburante della Maginot, studiando le correnti anche se poi vinceva sempre uno di Roma. La leggenda diceva che la sponda piacentina – tanto insultata per motivi calcistici – avesse l’acqua più limpida: così la “Sirenella” era la chiatta-bar più frequentata e il Ponticello la meta più trendy per gli amanti della musica che animavano questo bizzarro «mare dei poveri».
Insomma, il relax sul Po è un ricordo vivo per tutti i cremonesi over 50, anche ora che decenni di inquinamento ne hanno compromesso la balneabilità e la fauna ittica. Nessuno pesca più col “bilancino”, addio rane da frittata e storioni in carpione. Ora le pozze sono depredate da bande di pescatori di frodo provenienti dall’est Europa a caccia di siluri da un quintale e più. Pirati che bivaccano in riva, pescano di notte, rubano i motori dalle navi attraccate e devastano l’habitat per poi ripartire su camion frigo ricolmi. Con buona pace di Vitaliano Daolio, proprietario del “Po fishing center” di Motta Baluffi e ultimo erede dei genuini pescatori di una volta. Vitaliano è solo uno dei veri animali da fiume che popolano Cremona. Come Maurizio Cozzoli, detto “il Caimano”, nuotatore di fondo e leggenda cittadina. Come l’ex sindaco Oreste Perri, olimpionico di canottaggio e testimonial vivente di un’altra fetta di vita cittadina acquatica. Già, perché sul Po si susseguono le società canottieri che hanno dato lustro allo sport locale: Flora, Baldesio, Bissolati sono tutt’ora centri di eccellenza per nuoto e canottaggio e centri di aggregazione. E proprio l’aggregazione e la riscoperta dell’argine sono diventati l’obiettivo delle ultime amministrazioni. Impossibile lasciare nel degrado una zona da troppo tempo frequentata solo a giugno durante la fiera di San Pietro e per le feste popolari.
Ecco dunque che gli ultimi sindaci hanno cercato di sistemare il lungofiume, che ora vanta un percorso vita, dei giochi per bambini, un attracco con ascensore, un anfiteatro e una rete di sentieri, passeggiate e piste ciclabili che portano fino a un campeggio e oltre, nella Lanca Bosconcello, nel Parco del Po e del Morbasco e in quello sovracomunale della Golena del Po: sessanta chilometri punteggiati di cascine, salici e santuari che spezzano l’alternanza banale delle geometrie agricole. Sessanta chilometri che nascondono l’antica fauna golenale nei bodri, curiosi stagni creati dalle esondazioni che ospitano tife, lenticchie d’acqua, testuggini e martin pescatori e che sono un po’ le cicatrici lasciate nella terra dai vecchi morsi del mostro Po. A suo modo una ricchezza. Perché forse, dopo aver archiviato il sogno di portare il canale Cremona-Milano oltre Pizzighettone e di sviluppare economicamente un porto noto soprattutto per aver ospitato il sottomarino “Enrico Toti”, questo sarà il futuro fluviale di Cremona: sport e passeggiate, camping e mini-crociere sulle motonavi nei luoghi verdiani, tour gastronomici come il NavigarMangiando e attività scientifiche come l’Acquario del Grande Fiume. Una città turistica a misura di gusto ed ecologia. Perché chi l’ha detto che l’oro del Po non possa nascondersi anche tra le curve di una pista ciclabile?