di Tino Mantarro | Foto di Michele Morosi
Da Milano a Genova, da Roma a Torino, il progetto Migrantur permette di conoscere i quartieri a forte immigrazione con guide d’eccezione: gli stessi immigrati che li abitano
ESCLUSIVA WEB. Guarda a destra la presentazione di Tino Mantarro, autore dell'articolo.
«Viva gli Alpini!!» C’è scritto proprio così sul fiore tricolore appeso sulla borsa di Monica. «Viva gli alpini», come se fosse la cosa più naturale possibile per una ragazza nata in un villaggio rumeno che racconta orgogliosa di essere una Csàngò: una micro minoranza di lingua ungherese da secoli stanziata in Transilvania. Quasi fosse un ombrellino, Monica lo agita per chiamare l’attenzione dei visitatori che sta accompagnando tra le bancarelle di Porta Palazzo, il mercato all’aperto più grande d’Europa che da quasi due secoli costituisce la porta d’accesso per tutti i migranti, dai pugliesi ai marocchini sbarcati a Torino. Porta Palazzo è anche il variopinto palcoscenico di uno dei cinque percorsi cittadini di Migrantour, un progetto di passeggiate interculturali che proprio a Torino è nato nel 2010. «Si chiamava Torino Migranda ed era il primo esperimento in cui ci si affidava ad accompagnatori migranti per conoscere una parte della città molto ricca e particolare come il grande mercato di piazza della Repubblica» spiega Rosina Chiurazzi Morales. Per metà peruviana e per metà italiana, Rosina aveva seguito quel primo corso di formazione per accompagnatori interculturali (guai a chiamarle guide) e adesso è diventata responsabile del progetto per la cooperativa Viaggi solidali.
Negli anni l’idea delle passeggiate migranti è cresciuta e si è sviluppata a macchia d’olio, evolvendo nella rete europea Migrantour, un progetto cofinanziato dall’Unione europea nell’ambito del programma Agrobiodiversità, culture e sviluppo locale sostenuto economicamente dall’Ifa, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo. «Oggi Migrantour è attivo in quattro Paesi - Italia, Francia, Spagna e Portogallo - con passeggiate interculturali in nove città» racconta Rossella Semino, che per Fondazione Acra ha coordinato il progetto a Milano e Genova e Roma. Mentre a Firenze è stato gestito da Oxfam e a Torino e Roma da Viaggi Solidali. «Abbiamo avviato i corsi di formazione per gli accompagnatori, studiato gli itinerari nelle varie città e realizzato una lunga serie di passeggiate di prova» spiega. Ogni accompagnatore ha seguito un corso di 60 ore e si è confrontato con altre venti ore di passeggiate per rodarsi nella presentazione e mettere a punto le proprie tecniche per tenere desta l’attenzione. «In ogni città il gruppo è diverso: a Milano sono in maggioranza latinoamericani, ma ci sono anche alcune studentesse italiane di mediazione culturale che fanno le visite alla scoperta di Paolo Sarpi, il quartiere cinese. A Genova il gruppo è più eterogeneo: su 12 persone abbiamo 9 nazionalità diverse. Tutti sono accomunati da esperienze nell’insegnamento e nel campo della mediazione culturale, oltre che da un incredibile amore per la città» aggiunge Rossella. L’obiettivo è semplice e complesso allo stesso tempo. «Per noi si inserisce in un percorso di educazione alla cittadinanza mondiale che come Accra perseguiamo da sempre, soprattuto con le scuole» spiega Rossella. Scuole che fin qui rappresentano quasi l’80 per cento delle visite svolte.
L’idea di Migrantour si basa su due concetti cari all’antropologia contemporanea: la decostruzione dello stereotipo e l’incontro con l’altro, soprattutto quando l’altro arriva direttamente a casa. Concetti che potrebbero sembrare astratti, ma che le passeggiate migranti traducono in incontri di prima mano con la realtà urbana in mutamento. «Ogni tour si svolge con due accompagnatori migranti, che si alternano introducendo il quartiere che si attraversa e in parte raccontano di se stessi, del proprio percorso migratorio» prosegue Rossella. Ne risulta un itinerario a piedi di un paio d’ore in cui a seconda delle città si visitano luoghi di culto delle comunità che vivono la zona (dalle chiese valdesi ai centri islamici), negozi multietinici dove acquistare prodotti esotici, incontri con commercianti italianissimi che hanno assecondato il cambiamento, assaggi in ristoranti etnici. «La parte dell’assaggio è quella che più scioglie le diffidenze, soprattutto quando hai a che fare con i ragazzi delle scuole» racconta Rosina. Quasi che a tavola tutti fossimo più capaci di metter da parte i pregiudizi e fossimo più aperti a incontrare l’altro.
Ed è proprio questo altro che gli accompagnatori sono orgogliosi di raccontare. Sia che si tratti di via Padova o Chinatown a Milano; di Porta Palazzo o della zona di San Salvario a Torino; della Commenda di Pré a Genova o del quartiere Esquilino, a Roma. «Non sempre sono periferie, anzi spesso sono centrali nel tessuto urbano, però sono zone considerate socialmente marginali, fuori dai percorsi turistici» spiega Rossella. «Sono aree spesso rappresentate dai media come luoghi pericolosi, così che la gente che non li frequenta si immagina terre di nessuno. Territori verso cui abbiamo molti pregiudizi, zone con cui invece vogliamo far riappacificare i cittadini». «Nella vita di tutti i giorni faccio la colf - racconta Monica -. Ho portato qui a Porta Palazzo i miei datori di lavoro che altrimenti qui non sarebbero venuti perché lo consideravano pericoloso. Ora tornano da soli a far la spesa e questo mi rende felice, come mi rende felice poter raccontare qualcosa del mio Paese e della mia cultura agli italiani». Come Monica, tutte le guide formate dal progetto sembrano ben consapevoli del proprio ruolo. «Mi piace questa idea che con quel che facciamo possiamo far cambiare le cose. Hai una responsabilità: le persone che ti stanno a sentire si fanno un’idea. E tu sei un ambasciatore, non solo della tua cultura, ma di tutte le culture migranti che popolano le città» spiega Emma, boliviana, insegnante, tra le prime a Milano a seguire il corso già nel 2012. «E poi durante queste esperienze impari sempre: impari qualcosa delle culture degli altri migranti che sono accanto a te, impari qualcosa della cultura italiana confrontandoti con chi fa le passeggiate» aggiunge. L’aspetto multiculturale è sempre presente in ogni passeggiata. Così a Milano una guida peruviana ti introduce al Centro culturale islamico di via Padova e una ragazza boliviana ti parla dei migranti del Corno d’Africa installatisi a Porta Venezia; mentre a Torino una rumena ti spiega come si usano le spezie nella medicina tradizionale cinese e a Genova una venezuelana ti racconta di De André e della vita nei carrugi. Le passeggiate migranti diventano allora una forma di turismo sostenibile a chilometro zero, un aprire la finestra e trovarsi il mondo in casa.
Lo diceva anche il marco polo di Calvino nelle Città Invisibili: «D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda». Quel che serve per affrontare una passeggiata migrante è allora la curiosità, la stessa che ci spinge a partire per andare a visitare qualunque lontanissimo altrove. Solo che questa volta l’altrove è dietro l’angolo. «Non vogliamo fare il racconto di una guida turistica che parla di storia e di monumenti. Vogliamo raccontare un luogo e le persone che lo abitano oggi e lo hanno abitato un tempo» spiega Mayela Barragan, venezuelana che da 25 anni vive a Genova. A chi la fa una passeggiata Migrantour permette di rispecchiarsi negli occhi degli altri e scoprire anche qualcosa della propria storia. «Qui a Genova alle volte iniziamo o concludiamo il nostro percorso dal museo della migrazione allestito al Galata» racconta Rossella. «È un buon posto per far vedere agli italiani quando i migranti erano loro» spiega Sakho, insegnante arrivato tre anni fa dal Senegal.
Sakho è molto lucido e analitico nel raccontare l’esperienza delle passeggiate. «Ogni volta è come un’opera in tre atti» racconta. «Il primo momento è quello del dubbio: a qualcuno glielo leggi in faccia che pensa “che cosa ci può raccontare questo qui, africano, di Genova?”. Dopo viene lo scambio, la reciproca conoscenza: ti racconto qualcosa che non sai sulla tua città e tu dai sfogo alle tue curiosità. Alla fine c’è il ringraziamento: un arricchimento reciproco, una nuova scoperta» spiega. Una scoperta che serve ad abbattere pregiudizi e a cambiare prospettive. Anche se sembra una frase da baci Perugina è vera: le differenze più che nelle cose stanno negli occhi di chi guarda.