di Simona Daviddi | Fotografie di Gianni Cipriano
Un lembo di Sicilia lontano dalle rotte più battute, dove l’arte si respira a ogni angolo: quella sontuosa dei lasciti barocchi, quella visionaria di originali artisti contemporanei e quella solare della grande tradizione ceramista. Da scoprire in un viaggio dei sensi profumato di salmastro
Tutta colpa di un libro. Un piccolo volume trovato per caso in una libreria siciliana: La notte in cui Pessoa incontrò Filippo Bentivegna di Vincenzo Catanzaro. Amando Pessoa, non potevo non comprarlo. Il racconto non narra le vicissitudini di Filippo Bentivegna, ma consente al lettore di spiarlo nel suo frenetico e solitario atto creativo, intento a scolpire teste umane nelle rocce e nei tronchi all’interno del Castello Incantato – il suo podere a Sciacca, nella Sicilia sud-occidentale – popolandolo di personaggi che prendono vita nella sua mente. Personaggi che lo scultore definisce suoi sudditi, ognuno con personalità e fisionomia proprie. Bentivegna intriga a tal punto che decido di rintracciare l’autore del libro, incontrarlo a Sciacca e farmi raccontare di più di questo bizzarro artista. L’appuntamento è al Castello Incantato, oggi trasformato in un museo a cielo aperto. La scena è surreale: centinaia di teste in pietra disseminate ovunque sembrano dare il benvenuto e, all’ombra di un mandorlo, pare quasi di vederlo “Filippo delle teste”, come lo chiamano da queste parti, intento a scolpire nella roccia i volti, beffardi e misteriosi, dei sudditi.
«La storia di Filippo Bentivegna sembra uscita da un romanzo» racconta Catanzaro. «Contadino analfabeta, agli inizi del Novecento emigrò negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Invece trovò la pazzia: un rivale in amore lo aggredì provocandogli un trauma cranico. Da allora non fu più lo stesso. Tornò a Sciacca, si rinchiuse nel podere di famiglia e iniziò a creare teste di pietra. Decine. Centinaia. Migliaia. Enigmatico e solitario, in paese era considerato uno squilibrato. Da piccolo lo incontravo spesso: era un sognatore, un folle che si esprimeva con un linguaggio immaginifico e pretendeva di essere chiamato “eccellenza”. Morì nel 1967, a 78 anni».
La sua arte era però destinata a valicare i confini di Sciacca e le sue teste erano destinate a far bella mostra di sé nei musei: Bentivegna oggi è riconosciuto come uno dei massimi esponenti mondiali dell’Art Brut, ovvero l’arte “bruta e grezza”, spontanea e autodidatta, che dà vita a creazioni non convenzionali e assolutamente fantasiose, espressione spesso di stati mentali alterati. Ma Bentivegna non è l’unico personaggio sopra le righe di quest’angolo di Sicilia. Dev’essere l’aria di Sciacca, il suo essere in balìa delle correnti culturali del Mediterraneo, a dare agli artisti locali un tocco stravagante e insolito. Per accorgersene, basta avventurarsi alla scoperta del centro storico dove, accanto a palazzi barocchi dai portali lavorati e a imponenti chiese dalle cupole maiolicate, mi imbatto negli atelier di pittori e scultori dall’estro originale e nei laboratori dei maestri ceramisti, eredi di un’antica tradizione artistica.
Varcata l’ornata Porta S. Salvatore, mi trovo al cospetto della chiesa normanna del Carmine, della trecentesca chiesa di S. Margherita e del quattrocentesco Palazzo Perollo. Nell’appartata piazza Matteotti incontro l’atelier di Franco Accursio Gulino che dipinge sulle superfici più impensate: porte, valigie, ante di logori armadi, lavagne, fasciami di barche, trasformando il supporto in protagonista delle sue creazioni, visionarie e simboliche. «Ho iniziato a dipingere su vecchie porte alla fine degli anni Sessanta – racconta Gulino – quando le tele costavano troppo». I suoi cicli pittorici sono ispirati all’isola Ferdinandea, la misteriosa “isola che non c’è” emersa nel 1831 dopo un’eruzione vulcanica di fronte a Sciacca e inabissatasi sei mesi dopo. «L’isola Ferdinandea è per me quasi un’entità viva – spiega Gulino – che si è rifiutata di sottostare alle manie di possesso e all’arroganza umana (appena emersa, l’isola diede vita a dispute territoriali tra Gran Bretagna, Francia e Regno delle Due Sicilie) e ha preferito riprendere la via del mare pur di non perdere la propria libertà».
Lasciato Gulino, una breve passeggiata e si arriva alla Chiesa Madre dedicata alla Madonna del Soccorso, dalle leziose volute barocche e la coreografica facciata incompleta. Svoltato l’angolo, in vicolo Imbornone, ecco l’atelier di un altro pittore amato dai critici: Vincenzo Nucci, da poco scomparso. La sua produzione artistica si caratterizzava per la presenza, pressoché costante, di un elemento tipico della Sicilia, la palma: simbolo della commistione tra indole araba e mediterranea. Nucci l’ha dipinta per una ventina d’anni: ogni volta era una palma completamente diversa, perché diversi erano la luce che la illuminava e il paesaggio che la circondava.
Sono giunta così alle due vie eleganti dello shopping – via Licata e corso Vittorio Emanuele – che attraversano parallele il centro storico e meritano un giro per curiosare tra le gastronomie, le vetrine con i coralli di Sciacca e le botteghe dei ceramisti. Entrare nel laboratorio di Gaspare Patti o di Nino Cascio vuol dire incontrare Orlando, Angelica e tutti i personaggi dell’opera dei Pupi, ma anche centinaia di oggetti di uso quotidiano, modellati e dipinti a mano usando tutta la palette cromatica del territorio: le innumerevoli tonalità di giallo e arancione, i blu intensi e i verdi più brillanti. «L’arte ceramica qui vanta origini antiche – racconta Cascio –, nel medioevo era un’attività fiorente ma sono stati ritrovati frammenti che risalgono al periodo sicano, intorno al XII secolo a.C. Oggi è una tradizione che viene insegnata nell’istituto d’arte e può contare su oltre 40 botteghe artigiane».
Nel cortile Carini si arriva nel regno di un altro artista, autodidatta e istintuale, Giulio Lorubbo, in arte Lulo, che crea mosaici e collage tridimensionali con elementi riciclati trovati per strada, in spiaggia, in campagna: frammenti di vetro, pezzi di legno, reti, conchiglie, piastrelle rotte diventano i protagonisti di paesaggi e nature morte. «Mi sono innamorato di quest’angolo un po’ fatiscente e ho deciso di dargli dignità artistica decorandolo – spiega Lulo –; il murales che accoglie i visitatori l’ho intitolato L’albero del cotogno, in ricordo dell’albero che dava il nome al cortile nel Quattrocento».
Da qui inizia il dedalo di vicoli orientaleggianti del quartiere di S. Michele, seducente casbah, dove le case – strette intorno ai resti del castello dei Conti Luna – si assiepano le une alle altre, separate da stradine e ripide scalinate. Verso il mare c’è un ultimo artista dal quale non posso non fare una sosta, lo zio Aurelio. Le sue granite al limone sono considerate tra le migliori d’Italia: vellutate, morbide e profumatissime. Il bar di Aurelio – ufficialmente si chiama Bar Roma – è lì, in un angolo appartato del porto fin dal 1967. Gli arredi sembrano ancora quelli dell’epoca e anche il quasi ottantenne Aurelio ha l’espressione di uno che non si è mai mosso di là. Eppure il suo volto campeggia sulle pagine di giornali italiani e stranieri che tappezzano le pareti del locale. Il suo segreto? «La passione e la genuinità degli ingredienti» afferma Aurelio mentre mostra la vecchia Cattabriga con cui lavora ancora agli ingredienti. «Seleziono i limoni uno a uno, per essere sicuro che siano giusti per la granita». L’ideale è mangiarla in mattinata dopo aver fatto una passiata, una passeggiata lungo il molo per osservare i pescatori di ritorno intenti a vendere il pescato.
A fianco del bar Roma si trova l’entrata delle grotte del Caricatore, labirinto di antri e cunicoli scavati nella roccia e usati nel medioevo per ammassare le granaglie, che valsero a Sciacca il diritto di battere moneta. Grotte connesse all’antica vocazione turistica legata alle terme. Meglio rinnovare la tradizione e rilassarsi alle “stufe” di S. Calogero, due grotte naturali dove aleggia un vapore sulfureo tra 38 e 42 gradi: perfetta “sauna” naturale, che la leggenda vuole creata da Dedalo.