di Isabella Brega | Fotografie di Lorenzo De Simone
Ecco dove si perpetua l’amore fra la città piemontese e il suo fiume
Non è mai appartenuta a se stessa. La Torino dei Savoia, la Torino della Fiat, dell’Einaudi o della Juventus: la prima capitale d’Italia ha sempre dovuto lottare per la propria identità. Senza per questo rinnegare il dna di città imperniata sull’etica del lavoro, tenace, misurata, a tratti austera, espressione di un benessere e di una felicità mai sbandierate ma velate di pudore. Una città dal temperamento antico, con i suoi riti fin de siècle, le buone maniere, i portici protettivi, le piazze trionfali e i caffè caldi di chiacchiere e bicerin. Eppure mai come negli ultimi anni Torino ha cercato di smentirsi, di spazzare le brume e spezzare gli stereotipi che la volevano grigia, magica, polverosa, industriale, museo di se stessa. Cambiando passo e cambiando look si è scoperta vitale, giocosa, innovativa, eccitante, volitiva, sicura delle proprie scelte. Finalmente se stessa.
Vincendo l’azzardo delle Olimpiadi invernali del 2006, Torino non ha inseguito modelli estranei alla propria indole, non si è rifatta il trucco ma ha messo a nudo la propria anima e la sua voglia di non essere uguale a nessun’altra. Per farlo la città chiusa e riservata ha risvegliato l’antica vocazione europea. Ha pulito l’argenteria di casa, ha spalancato le finestre, ha aperto la porta al mondo. E non si è più fermata. Ha recuperato ville reali e palazzi nobiliari ma anche fabbriche abbandonate, aree industriali dismesse, quartieri dormitorio e ne ha fatto laboratori artistici, locali alternativi, centri d’incontro.
Città del cinema e della creazione ma anche centro universitario, luogo di eccellenze culinarie e di produzione culturale e, cosa inimmaginabile fino a qualche tempo fa, destinazione turistica: Torino si è reinventata. E, dopo la crisi dell’industria automobilistica, ha ricompattato il tessuto sociale, ha accolto la sua nuova anima multietnica, ha scommesso su ciò che conosceva meglio, l’art du bien vivre, e ha anche rispolverato il suo rapporto con il gran fiume. Il Po è tornato protagonista della vita cittadina, soprattutto a San Salvario e Vanchiglia, i quartieri lungo il fiume, i più amati dai giovani, con il parco del Valentino, il ponte Vittorio Emanuele I, voluto da Napoleone nel 1813, che collega la scenografica piazza Vittorio con la chiesa della Gran Madre e i quartieri collinari. E, a ridosso del ponte, i Murazzi, ricavati nel 1834 e utilizzati fino agli anni Cinquanta del secolo scorso come magazzini, approdo e rimessaggio delle barche.
Si assomigliano, Torino e il suo fiume. Il Po, con quel suo procedere lento e maestoso attraverso luoghi, immagini e persone, narra storie sedimentate sulle sponde e strettamente intrecciate al tessuto cittadino. Racconta di pittori, barcaioli, pescatori, ma anche di feste sacre, come quella di San Giovanni, o di feste profane che celebravano l’arrivo in città di ospiti illustri, senza dimenticare le grandi esposizioni internazionali, i primi insediamenti industriali della Fiat e i circoli sportivi di stampo anglosassone. Nel 1863, quando la città vanta circa 300mila abitanti, sul Po nasce la Reale Società Canottieri Cerea (dal saluto che si scambiavano i vogatori torinesi), la seconda d’Italia, tra i fondatori del Regio Rowing Club (la futura Federazione Italiana Canottaggio). È ai quattro dell’equipaggio della barca San Marco della Cerea che nel 1868 va il merito della prima discesa del Po da Torino a Venezia. Via via sorgono il Circolo Canottieri Eridano (1864), frequentato anche da artisti e musicisti, noto per le sue feste e primo ad ammettere le donne, il pluridecorato Armida (1869, frutto dell’unione delle società Flik-Flok e Mek-Mek), 140 anni di vita e 62 titoli italiani. E ancora il club Caprera (1883) e l’aristocratica Esperia (1886, che organizza la regata di gran fondo Inverno sul Po), con la sua sede progettata nel 1926 da Enrico Boccielli sul fiume.
Oggi il Po continua a essere solcato dalle canoe dei professionisti ma anche dai neofiti grazie ai corsi organizzati dagli Amici del fiume, Amici del remo o Cus Torino, da chi va a passeggiare o a correre al Valentino, il più antico parco pubblico della città, e dagli appassionati delle due ruote che sfilano lungo le molte ciclabili come quella di 19 chilometri che costeggia il fiume dal Parco delle Vallere, a Moncalieri, fino a San Mauro Torinese.
Sono tanti gli imbarchini in riva al fiume ricchi di terrazze e dehors, i locali dove celebrare il rito dell’aperitivo con il Campari liscio. Tresette e canasta, vitel tonnè, acciughe al verde e bagna cauda appartengono invece al menu delle tipiche piole (osterie), e agli eredi delle trattorie ottocentesche lungo il fiume come Porto di Savona, antico ritrovo di battellieri in piazza Vittorio e ora di proprietà del comico Piero Chiambretti, l’Osteria del passatempo o la Trattoria del trasporto, dove un tempo si gustava pesce fritto e si giocava a bocce. La notte invece è appannaggio di pub e locali dei Murazzi, come la pista da ballo del The Beach che di sera anima la spiaggia estiva sul Po o il ristorante-discoteca Kogin’s club, con una sala a vetrate affacciata sul fiume.
Area controversa quella dei Murazzi, dominati dal monumento dedicato nel 1887 da Odoardo Tabacchi a Garibaldi: l’eroe dei due mondi, un leone e l’Italia a guardia del luogo sinonimo di divertimento notturno e trasgressione. Troppa, al punto che molti locali storici che fino al 2012 hanno rappresentato l’emblema della movida torinese, sono stati chiusi e ora l’area, pur non avendo persa la sua fama, è in attesa di un progetto di rilancio.
Sono due ponti, Umberto I e Isabella, a scandire lungo la riva sinistra del fiume i confini del parco del Valentino, 50 ettari di verde e un tripudio di cascate e ruscelli dominati dalla grande vasca ovale della fontana dedicata ai 12 mesi e ai fiumi torinesi – Po, Dora, Sangone e Stura –, unica sopravvissuta degli edifici progettati dall’architetto Carlo Ceppi in occasione dell’Esposizione Generale Italiana del 1898. A ridosso del settecentesco Orto botanico, ricco di oltre 4mila specie, ecco il castello del Valentino, imponente residenza eretta nel 1633-1660 su progetto di Carlo e Amedeo di Castellamonte per Madama Reale, Maria Cristina di Borbone, moglie di Vittorio Amedeo I e figlia di Enrico IV re di Francia. Ed è proprio al modello dei cugini francesi cui si è sempre ispirata la città, con quella grandiosità d’intenti che vedeva come riferimento la scintillante e inarrivabile Parigi, che si rifà il palazzo, con le quattro torri a ferro di cavallo e gli affreschi di Isidoro Bianchi. Dal 1997 l’edificio, oggi sede della facoltà di architettura del Politecnico, insieme al circuito delle regge sabaude è inserito nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità. Torino ha sempre saputo far tesoro degli eventi che ha ospitato e che hanno lasciato tracce di sé nel tessuto architettonico della città. Grazie a un’altra Esposizione Generale Italiana, quella del 1884, il parco vanta infatti anche il Borgo e la Rocca medievali, dove si trova anche l’imbarcadero dei battelli Valentino e Valentina che percorrono il fiume in romantiche minicrociere. Ideato dall’architetto Alfredo Andrade, il complesso riproduce un tipico borgo medievale piemontese con piazze e botteghe. Ma il parco vanta anche costruzioni molto diverse come la palazzina liberty della Promotrice delle Belle arti e il sobrio Torino Esposizioni, progettato nel 1938 da Ettore Sottsass.
Savoia e Agnelli, politica e industria: non solo la casa regnante ma anche la Fiat ha lasciato traccia al Valentino. Gli stabilimenti delle produzioni primarie e accessorie della prima industria automobilistica italiana, fondata nel 1899, furono raggruppati in un’area nei pressi del Po attorno a corso Dante, fra le vie Marenco, Monti e Chiabrera. Nel 1904 l’azienda era in grado di produrre 268 vetture all’anno grazie ai suoi più di 500 operai, cifra che crebbe nel dopoguerra, quando dal Meridione arrivarono migliaia di lavoratori, portando la città a oltre un milione di abitanti. Ancora Torino e il Po furono i protagonisti di Italia 1961, in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia. Nei pressi del Borgo Medievale fu realizzato il Giardino Roccioso, costruito per Flor 61, l’esposizione di fiori inserita nei festeggiamenti, con un roseto di duemila piante. All’ingresso sud della città, sulle rive del fiume, fu costruito il complesso Italia ’61: alcuni padiglioni, il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi, in stato di abbandono e vittima lo scorso agosto di un grave incendio, il Palavela dello studio Levi e Rigotti, riservato alle mostre e trasformato da Gae Aulenti in palazzetto dello sport per le Olimpiadi del 2006, una funivia che passando sul Po collegava il Valentino alla collina di Torino e una monorotaia sopraelevata che costeggiava il fiume. Il cinema si impossessò di questi luoghi e le forme avveniristiche del complesso spinsero nel 1963 Ugo Gregoretti ad ambientarvi alcune scene di Omicron, pellicola fantascientifica in chiave satirica, e nel 1969 Peter Collinson a girarvi The italian Job, con Michael Caine.
Nulla di strano per questa città dai fondali ottocenteschi che, infischiandosene dei luoghi comuni che la vogliono arida e sospesa nel tempo, ama giocare con l’illusione. È qui infatti che ai primi del Novecento grazie a decine di case di produzione è nato il cinema italiano che ha sfruttato come set dei primi film muti proprio il borgo medievale e ha dato vita a opere come il kolossal Cabiria di Mario Pastrone (1914). Nel 1911, all’Esposizione Internazionale che si tenne nel parco del Valentino e lungo le sponde del Po, un intero padiglione era dedicato al cinema. Ecco perché oggi Torino scommette sull’immaginifico Museo del cinema, allestito nella sinagoga mancata della Mole Antonelliana e, dal 1° ottobre, su Camera, centro per la fotografia, sede di mostre ed eventi. Un luogo per custodire e valorizzare le immagini che appartengono al patrimonio fotografico italiano. Quelle nelle quali Torino, la città che ha dovuto lottare per la propria immagine, riaffermerà ancora una volta la propria identità.