Basilicata: terre di confino

Chi e che cosa è rimasto della profonda relazione fra il pittore-scrittore Carlo Levi, autore di "Cristo si è fermato a Eboli", e i luoghi in cui fu relegato dal fascismo nel 1935? Siamo andati a vedere di persona. Ecco quello che abbiamo scoperto

 

Una manciata di chilometri quadrati consente alla Basilicata di superare quota diecimila e dirsi grande come la Giamaica o il Libano – a lungo exotica (sic) come la prima et arcaica (sic, bis) come il secondo. Non è però la superficie che c’interessa, ma l’amalgama di vicende degli uomini, interventi dell’uomo e azioni geologiche che definiscono altezza (e alterità) di questa terra di confini e confinati. Partiamo dai primi. Con Lucania per quasi due millenni s’è indicata un’area che includeva porzioni variabili di Campania e Calabria, il Vulture e Matera sono restate fuori a lungo. La cartografia ha sancito perimetri con tratti netti, mentre all’interno fino a ieri si tramandavano geometrie feudali: i baroni da una parte, i contadini dall’altra.
Poi, negli anni Trenta del secolo scorso il regime fascista s’è appropriato del toponimo, facendone la denominazione ufficiale. Oggi resta, chè basilicatese esiste ma, Treccani alla mano, “è forma poco comune, essendo in genere preferito lucano”.
Di sgraditi a quelle latitudini ne finivano parecchi: solo nel materano ne furono spediti quasi tremila. Carlo Levi è stato uno di loro: la Regia Questura l’ha tradotto da Torino alle argille lucane nell’estate di ottant’anni fa. Aveva 32 anni ed era rassegnato a trascorrere un mese e mezzo a Grassano prima di essere destinato ad Aliano. L’euforia della guerra in Etiopia l’ha rimesso in libertà quando mancavano cento ore al tramonto numero trecento. Il resoconto fu affidato a Cristo si è fermato a Eboli. Elidiamo due g – nel libro Aliano si chiama Gagliano – e torniamo dove “don Carlo” da quarant’anni riposa. La sua tomba è diversa dalle altre: una lastra sul suolo accoglie le pietre che la tradizione ebraica pone a memoria dei defunti e due pannelli verticali orientano lo sguardo verso il paese. È qui infatti che amava venire a dipingere, capricci del podestà permettendo.

È stato dottor Levi (una laurea in medicina) e onorevole Levi (senatore negli anni Sessanta), ma l’unica etichetta che non s’è mai scollata è quella di pittore che ha firmato oltre cinquemila tele. Abituato alle tavolozze sgargianti di Alassio e ai bagliori del Tirreno, in una delle prime lettere scrive alla madre di non sapere come «poter dipingere questo paesaggio così serio e grave». I colori li trova presto, «una gamma inusitata che va dal giallo al violetto, senza conoscere né l’azzurro, né il rosa», la forza pure. Dipinge bambini che sembrano uomini e donne senza i mariti. Li ritrarrà anni dopo. Dei paesaggi cattura porzioni ma ne intuisce tutta la forza: sono palco, sfondo e coprota­gonisti di una scena oltre la storia, vista attraverso l’«eternità individuale» della propria condizione. Seguiamo dunque il segno di una pittura senza vezzi o formalismi. Col rigore del tratto che ferma, asciutto e rigoroso, profili di volti e di monti, documentale e prezioso. E senza limitarci (si fa per dire) al Maestro piemontese. Per scoprire altri quadri di Lucania.
Dal cimitero di Aliano la strada scende bordando il dirupo della Fossa del Bersagliere e all’altezza di piazza Garibaldi invita a una visita alla pinacoteca che custodisce due dozzine di tele di Levi, realizzate pochi anni prima di morire. Due su tutte: Autoritratto con figure del ricordo e Maternità. La via si diluisce poi in un grappolo di vicoli, il primo porta alla Sala Paul Russotto – ricavata nel palazzo De Leo per le opere del pittore lucanoamericano scomparso l’anno scorso – e con l’altro si entra alla casa del confino. Quattro stanze spoglie: l’ambiente più pieno è la terrazza con le viste su dove non gli era concesso spingersi. Allora i residenti erano duemila, oggi sono la metà. E Aliano, Parco Letterario della Dante Alighieri, si staglia ancora – coi suoi cinquecento metri sul (e i cinquanta chilometri dal) mare – tra due corsi d’acqua, il Sauro e l’Agri. Scendendo verso quest’ultimo, calanchi spogli s’alternano a falesie coperte di campi e forre guarnite con arbusti (naturali) e alberi (piantumati). Lambiscono Alianello Nuovo e Alianello di Sotto, un’allitterazione che racconta di altalene demografiche per smottamenti di terra e spostamenti di famiglie. Raggiunto il fondovalle, si percorre la statale per venti chilometri, il fiume scorrerebbe sulla sinistra, in direzione opposta. Ma uno scudo concavo alto cento metri ne blocca il corso. Creando, subito oltre, il Lago di Pietra di Pertusillo.

Lasciamo acque e cemento, saliamo sulla destra per Montemurro. Il borgo compendia un campionario di visioni lucane. Distinte ma complementari alle leviane. Quelle di Maria Padula, artista di cui ricorre il centenario dalla nascita, sbucano lungo l’itinerario “I luoghi della pittrice”. L’ha ideato la figlia Rosellina Leone per promuoverne poetica e poietica: «Abbiamo rintracciato i luoghi di presa dei dipinti, integrandoli con riferimenti dai suoi racconti e dalle testimonianze di chi l’ha conosciuta», racconta. «Questo materiale è riportato in mappe navigabili tramite mattonelle interattive in giro per Montemurro». E rilancia la tradizione locale del graffito polistrato. Che anima, crescendo ogni anno, un museo diffuso fatto da decine di telai in ferro montati su altrettanti muri: alcuni sono in vicoli da cercare e scoprire, altri si stagliano lungo le strade d’accesso e gli slarghi più animati. Ogni opera è il risultato di una sottrazione progressiva di porzioni di terre colorate e stese, strato dopo strato, all’inizio. Si lavora a ritroso, dunque, da qualche parte tra le due dimensioni di un quadro e le tre di una scultura.
Il genius e l’ingegno più ricco del luogo sono quelli di Leonardo Sinisgalli. Prolifico, curioso ed eclettico, ha fuso la scienza dei numeri col design, la creatività delle parole nello sguardo critico. L’esempio più emblematico di un tesoro lucano misconosciuto: un talento moderno, tra redazioni, gallerie, salotti e impianti industriali. Come quelli che ha visto nascere nelle piane vicine a Montemurro e che da mezzo secolo pompano idrocarburi. Nel corso cittadino che oggi porta il suo nome ci sono due portoni: dietro a quelli al civico 67 è nato, varcando quello di fronte si entra nella Casa delle Muse. Sede della Fondazione Sinisgalli, raccoglie una bella collezione di documenti e oggetti. E la rende fruibile con cura e passione.

Torniamo ad Aliano lungo la valle del sauro, passando per il borgo di Guardia Perticara, una delle due Bandiere arancioni Tci della regione. Distrutto dai Saraceni, ferito dai sismi del 1857 e del 1980, vale la pena passarci per gli esperimenti di restauro integrale e integrato. L’altra Bandiera arancione si chiama Valsinni e per raggiungerla si replica: altri calanchi, altra diga. La “val” c’è ancora, il Sinni è imbrigliato dalla diga di Monte Cutugno (la più grande d’Europa in terra battuta) e, saltando “a tubi pari” la Lucania, si riversa in Puglia. Cappa e spada, lacrime e liriche: l’eco delle vicende di Isabella Morra aleggia qui e rivive nel castello del paese. Siamo sul confine del Parco del Pollino, nell’Italia esclusa dal Grand Tour. Uno però l’ha girata in bicicletta, raccontando le prime meraviglie lucane, incognite e inedite. Era il 1895, si chiamava Luigi Vittorio Bertarelli (uno dei padri fondatori del Touring Club Ciclistico Italiano).
Nel 2019 Matera si appunterà la coccarda di Capitale Europea della Cultura, saldando la parabola da “Vergogna nazionale” a “parterre di selfie coi Sassi”. Quel percorso lo si deve a chi ha posto l’urgenza della questione meridionale, Carlo Levi è tra questi. E proprio nel centralissimo palazzo Lanfranchi si chiude questo viaggio. A pianterreno un telero (tela di dimensioni molto ampie, solitamente dipinta a olio, ndr) srotola il pantheon dolente della sua Lucania, sessanta metri quadrati sui quali Levi imprime il ricordo del ricordo del confino, dopo essere tornato in quelle terre con Mario Carbone, amico e fotografo. Lo sguardo, sembrano dire, viene prima dell’immagine, supera la parola e diventa realtà mentre, interrogandola, la descrive.

Fotografie di Riccardo Venturi