Sorpresa Italia. Il paese dei balocchi

Isabella BregaIsabella BregaIsabella BregaIsabella Brega

Negli anni 1940-80 Santa Giuletta, in provincia di Pavia, fu al centro della produzione di giocattoli con una serie di aziende che diedero lavoro a centinaia di donne. Giocattoli ora raccolti in un piccolo, accurato, museo

Erano il sogno proibito delle nostre mamme da bambine. Quelle pupattole dagli occhioni azzurri spalancati, ombreggiati da lunghe ciglia, le guanciotte rosate, la boccuccia a cuore e gli abitini di pizzo che troneggiavano al centro del lettone di zie e nonne riempivano gli occhi e il cuore di desiderio. Manine frementi si tendevano per la voglia di tenerle in braccio, giocarci, pettinare i lunghi boccoli setosi. Inutilmente. Il ritornello era sempre quello: «Guardare, ma non toccare!». Punizioni terribili erano minacciate per chi fosse riuscito a impossessarsene, perché quegli oggetti del desiderio infantile erano merce preziosa. Quelle ingenue damine, antenate della Barbie, icona fashion cui il Mudec di Milano dedica una mostra (vedi pag. 99), potevano costare mesi di stipendio. Nel 1955 fino a 5mila lire, tanto da essere regalate in segno di buon augurio alle neospose ed essere esibite nelle foto in bianco e nero insieme ai bebè di casa, immortalati come mamma li aveva fatti. Negli anni Trenta del secolo scorso il piccolo centro agricolo di Santa Giuletta, in provincia di Pavia, 2mila anime appena, si trasformò nel paese delle bambole.

Furono due cugini, Teresio Garbagna e Luigi Porcellana, a dare il via a tutto. Impiegati a Milano presso la ditta Fata di bambole artigianali, con la chiusura dell’azienda a seguito della crisi economica del 1929 decisero con coraggio e incoscienza (avevano poco più di vent’anni) di buttarsi nell’avventura imprenditoriale. Acquistarono la Fata e nel 1933 ne trasferirono la produzione in un piccolo laboratorio del loro paese natale, sopra la bottega di pizzicagnolo del padre di Teresio, creando bambole economiche destinate per lo più alla raccolta punti dei prodotti Cirio. Alle prime bambole, prodotte da sette ragazze con due macchine da cucire, che avevano il corpo in stoffa imbottita con trucioli di legno, la testa in cartone pressato ricoperto di panno, bocca e occhi dipinti, seguirono quelle realizzate in cartapesta, polistirolo, polietilene e infine vinile.

Per quasi quarant’anni quella delle bambole fu per Santa Giuletta la storia dell’intero paese. Aprirono 15 nuove fabbriche, per un totale di quasi mille persone, impiegate anche nelle ditte complementari per la produzione di occhi, voci o capelli. Intorno a un universo femminile, che per la prima volta trasformava ragazze provenienti anche da comuni vicini o madri di famiglia che lavoravano a domicilio in operaie specializzate, girava il lavoro maschile della creazione degli stampi e della verniciatura a spruzzo. Le bambole erano esportate in tutto il mondo, dal Venezuela al Perù, dal Belgio all’Inghilterra. Negli anni Sessanta, a seguito della concorrenza delle industrie venete e della Furga di Canneto sull’Oglio, molte fabbriche chiusero i battenti, mentre altre diversificarono la produzione creando peluche. Come la ditta Rossella che, come ricorda Mariuccia Moroni, moglie del titolare, divenne famosa per pupazzi come Topo Gigio, Calimero, Five o la mascotte Misha delle Olimpiadi del 1980 a Mosca. Purtroppo molte ditte non pensarono a tutelarsi con un marchio, così che oggi risulta difficile individuare le bambole di Santa Giuletta. Ma, come tutte le favole che si rispettino, anche questo paesino ha le sue buone fate, che hanno raccolto attrezzi, macchine e bambole conservate da privati e minacciate dall’oblio.

Nel 2005, con l’aiuto dell’Amministrazione comunale, Loretta Ravazzoli insieme a Elisa, Milena e Paola ha dato vita al piccolo, curato, Museo della Bambola Quirino Cristiani. Per recuperare il materiale che oggi fa bella mostra di sé nei locali di piazza Sandro Pertini 14 (per la visita, tel. 0383.899141, 340.3259784), Loretta ha parlato con le ex operaie, ha cercato nelle soffitte e nei capannoni chiusi, ha setacciato magazzini e archivi ma soprattutto ha dato voce a quelle antiche ragazze, come Silvana Lieta Vespa, 39 anni nel reparto pettinature. Apprendiste di 16 anni che lavoravano anche 12 ore al giorno fra centinaia di bambole. Meravigliose damine che, con una  paga oraria di 20 lire, loro che le costruivano potevano sì toccare. Ma non potevano permettersi di comprare.

Fotografie di Isabella Brega