di Isabella Brega | Fotografie di Maurizio Fabbro
Con la Road to Mandalay in barca lungo l’Ayeyarwady, che con i suoi 2.170 km di lunghezza divide il Paese in due, per visitare le antiche capitali birmane
Tutto inizia da qui. Dalla prima stretta di mano, dai primi occhi sconosciuti che incrociano i tuoi. Il senso di un viaggio lo trovi nella prima persona che incontri all’arrivo. Perché ogni viaggio è una storia a sé. Qualcosa che non si acquista al supermarket del turismo. Non una collezione di luoghi, una bandierina da piantare sulla carta geografica, ma una storia di incontri. Soprattutto qui, in questo Myanmar solitario.
Una terra d’oro e di fango, di gloria e di miseria, di rubini e di mattoni, dove gli uomini hanno ancora nei gesti misurati e negli occhi limpidi il pudore sincero, l’eleganza delicata, il mistero insondabile di una cultura antica nella quale continuano a specchiarsi. Timidi come bambini che abbassano lo sguardo e cercano con la manina la sicurezza delle madri, raccontano di un mondo favoloso appannato dagli anni e dalle sofferenze, dove non tutti i conti con il passato sono stati saldati, ma non dimentico di se stesso. Qualcosa da vedere presto, con la sottile malinconia e la consapevolezza dei momenti irripetibili, con la sensazione che tutto stia per cambiare, come forse è giusto che sia, che il XXI secolo irrompa come un fiume in piena, travolgendo la sonnolenza apatica del passato con un futuro arrivista e feroce. Regalarsi un viaggio in Myanmar vuole dire soprattutto regalarsi il tempo per gustarlo fino in fondo, per capirlo e amarlo, non solo per guardarlo con le lenti colorate del turista e trafiggerlo come una farfalla con l’occhio avido e cinico di una fotocamera. Trofeo da esibire al ritorno, qualcosa non da vivere ma solo da immortalare. Quella del Myanmar infatti non è una bellezza romantica e svenevole, ma un’idea potente, forte, viva. Anche in questa terra, frutto di popoli diversi e di una storia pesante come piombo, quella favolosa Birmania che i generali hanno mortificato cambiandole persino il nome e isolandola da tutto e da tutti, la civiltà è nata lungo i fiumi. E sui fiumi bisogna tornare per coglierne in pieno l’essenza.
Una crociera lungo i bordi ampi e larghi dell’Ayeyarwady permette di inanellare le storiche capitali del Paese: Bagan, Ava, Mandalay. Non si è mai sufficientemente preparati per affrontare la maestosa solitudine di Bagan. L’atmosfera sospesa, l’orgoglio pacato di innumerevoli templi in mattoni rossi che punzecchiano il cielo e incendiano il tramonto. La scabra bellezza, l’asciutto misticismo di stupa e pinnacoli acuti come baionette. Sciabolate di pulviscolo dorato che trafiggono interni dove covano silenzi e Buddha smilzi e sornioni, scivolando sui rivestimenti in stucco bianco e stanando dal buio dipinti e preghiere, mentre le serpentine azzurrognole del fumo degli incensi confondono uomini e pensieri. Stupa cilindrici, campaniformi, sormontati da terrazze, templi con camere interne e vestiboli, nella calura che morde il giorno, dilata e risucchia l’orizzonte e il cuore rendendoli tremuli e incerti, Bagan appare come una filigrana di ricami che spicca nella polvere di una piana crepata, intrisa di ombre rosse annidate nella piega dei templi e punteggiata di carri trainati da bufali bianchi.
Tutti uguali, tutti diversi, tirati a lucido oppure diroccati e mangiati dal sole, corteggiati da una vegetazione asfittica e da venditori discreti di burattini scintillanti di lustrini e di lacche delicate come trine, nel loro austero isolamento i monumenti di Old Bagan non si impongono al visitatore, libero di entrare, arrampicarsi e aggirarsi su strade assetate con bici elettriche cinesi, a piedi o su improbabili taxi trainati da cavalli ciondolanti. Unica regola in questo gigantesco gioco da tavolo dove nulla è eccessivo o superfluo e che qualche anno fa, per disposizione del governo, perse le sue pedine umane, trapiantate in un nuovo insediamento più a sud, Nyaung-U, il rispetto della sacralità dei luoghi che impone di lasciare fuori scarpe e preconcetti. Alla fine della giornata la piana arsa e screpolata che durante il giorno consuma ogni angolo fra coltellate di luce e pozze d’ombra cruda e densa si affolla di turisti che sciamano come formiche, arrampicandosi sulle terrazze della pagoda Lawkaoushang per celebrare il rito del tramonto. Quando il sole che confonde la mente e le sagome per troppo vigore si stanca di infierire e si placa nell’aria immobile, uomini e animali riacquistano contorni e spessore. Per un attimo, un solo attimo, il mondo si arresta per cogliere il senso del qui e ora, lo stupore del presente. Poi la vita si riprende i suoi spazi. Tutto si rimette in moto.
La nave prende il largo seguendo l’inchiostro pallido del fiume, paesaggio mentale e poetico di emozioni e ossessioni, geografia dell’anima. Nella calura che allaga il giorno o nella foschia dell’alba che confonde ogni profilo, le sue pesanti acque di giada inanellano luoghi ed esistenze in un rosario di alberi, lingue di terra, chiatte di tronchi di teak. Niente effetti speciali. In un mondo a parte di silenzi e di richiami che ha la sua ragion d’essere nel pigro scorrere della corrente, in un tempo dilatato dalla dolce monotonia di rive sabbiose che appartengono a tutti e a nessuno, la vita quotidiana canta la sua canzone: spiagge mangiate dal sole, nodi di capanne fra rughe fangose, donne al bagno caste nella loro nudità, spicchi di risaie, bufali assonnati, coni di cappelli che ricamano gli argini. Squarci di vita, piccole storie dimenticate che incroci nell’unica dimensione dell’oggi mentre respiri immagini ed emozioni e che il fiume trascina subito via. Fiume dolce, fiume amaro, campi arati nel conforto dell’orizzonte sul quale spicca tremulo nella canicola il baluginio di lontane pagode dorate. Non monito della potenza divina ma elemento consolatorio che con i suoi stupa puntati dritti al cielo dà un senso a chi è costretto ogni giorno a piegare la schiena per vivere. Acqua per lavare, pescare, irrigare. Acqua che detta le regole nei tramonti vibranti di ombre purpuree fatti da ore larghe e pigre e da brezze solcate dal volo leggero di stormi di garzette che riconciliano presente e passato. Giorno dopo giorno le barche sottili ripiegano le loro ali candide, mentre tettoie affumicate celano pesci lunari dalle code molli orfane del loro delicato splendore, pile instabili di frutti chiassosi, collane di spaghetti di riso avvinghiate le une alle altre, occhietti che spiccano nel tondo di un visino impiastricciato di povere di thanaka e fanno capolino dalle schiene di madri affannate, il verde tenero delle foglie di betel arrotolate come serpenti nelle ceste.
Non vi è nulla di pittoresco nella povertà dignitosa di villaggi assorti e fragili, ignorati dalle carte al pari del Paese, isolato e inghiottito in una piega del tempo, ancorato al mondo solo dall’esile e dolente figura di Aung San Suu Kyi. Un viaggio in Myanmar è una rivincita contro l’arroganza dei signori della guerra che dal colpo di stato del 1962 ne condizionano ancora il futuro. Oggi che, con l’arrivo di compagnie come l’Ooredoo del Qatar o la norvegese Telenor, i telefonini non sono più una rarità (15 anni fa una Sim costava 5mila dollari, ora poco più di 1.17), il Paese dei rubini è affamato di tecnologia non meno che di libertà.
Superato il mondo appannato in bianco e nero delle rovine di Ava, ecco lo splendore abbagliante di Mandalay, una collina puntellata da monasteri e templi che luccicano contro la ruvidezza opaca delle vesti dei monaci, abbracciati alle ciotole di lacca che i birmani riempiono di cibo, i monacelli con lo sguardo colmo d’ansia per la paura che la propria rimanga vuota. Devoti e turisti sciamano dai delicati merletti candidi della pagoda Hsinbyume, onde di pietra che giocano a rimpiattino con la luce come in una gigantesca torta nuziale di zucchero, alle pannocchie dorate degli stupa, croccanti di fiori, pinnacoli, guglie, dove con un dollaro si comprano sottili lamine d’oro di speranze da appiccicare su altre speranze, fino allo splendore brunito del palazzo reale, con il suo delirio di guglie e riccioli lignei che si arrampicano nel cielo. In queste sale nel 1871-1885, sotto il regno del re Mindon si aggiravano Giovanni Andreino, primo rappresentante del Governo italiano, padre Paolo Abbona, abile mediatore fra i locali e i nuovi padroni inglesi, ma anche lo scozzese George Scott, autore dimenticato di poderosi volumi sulla cultura birmana. Così come dimenticata è anche l’opera dei missionari italiani presso i regni di Ava e Pegu, cui si deve nel 1776 il primo libro stampato con l’alfabeto birmano
Al luccichio di Mandalay si oppone sull’altra sponda del fiume la ruvidezza di Mingun, con il suo gigantesco tempio incompiuto e la sua altrettanto gigantesca campana in bronzo. Pochi chilometri e il fiume si stanca, lasciando il posto al lago Taungthaman, dove ancora una volta ci si ritrova ad ammirare il disco del sole scendere dietro le esili forme del ponte U Bein, ritagliando nella luce pura e smaltata le svelte silhouette di uomini, donne, monaci, bambini. Un fantastico teatro delle ombre, un momento di autentica bellezza. Come se fosse il primo e l’ultimo tramonto del mondo. Perché tutto ricomincia da qui.