di Tara Isabella Burton
Parigi, oggi: elogio della flânerie, l’arte di vivere tra voyeurismo ed esibizionismo che raggiunge vette straordinarie nei mitici locali della capitale francese.
«Une place, Madame?» Seduto su una delle sedie del café La Bourse ou la Vie (la borsa o la vita), un uomo con le bretelle mi chiede se voglio sedermi per poi tornare immediatamente a chiacchierare con i suoi amici. Sta evidentemente raccontando una storia. Una storia popolare ispirata al favolista del Seicento Jean de la Fontaine su un airone che si rifiutava di mangiare cibo che non fosse ottimo. Nel bel mezzo del racconto si distrae per salutare un amico che sta passando davanti ai tavolini in moto. Osservo un dipinto appeso alla parete che raffigura un uomo quasi nudo in posa da pin up e mi rendo improvvisamente conto che l’uomo con le bretelle è Patrice Tartard, il proprietario del locale. Dopo una serie di altre distrazioni finisce il racconto e mi si para davanti in posizione di airone. Uno dei suoi amici mi dice sospirando: «Tipicamente francese». Poche cose sono più francesi della combinazione tra voyerismo e gusto per la performance che si trova nei caffè parigini. D’altronde l’osservare la gente è uno dei passatempi più diffusi da queste parti. Nell’Ottocento, quando l’industrializzazione trasformò Parigi in una metropoli, la cosiddetta flânerie – ovvero l’abitudine di ciondolare in giro senza scopo se non quello di osservare le persone – divenne una forma d’arte. Flâneur come Honoré de Balzac e Charles Baudelaire camminavano lungo i nuovissimi grand boulevard della riva destra della Senna dove i larghi marciapiedi potevano ospitare decine di caffè, ideali per l’osservazione dei passanti. I gossip dell’epoca sostenevano che qualcuno tra loro andasse in giro con una tartaruga per rallentare il passo. Tutti i libri di allora erano dedicati alla ville spectacle, la città dell’intrattenimento, come era chiamata allora Parigi. Da bambina vivevo sulla Rive Gauche e sognavo la città dei flâneur come Balzac, Baudelaire ed Émile Zola. Pedalavo nel dedalo di strade del 9° arrondissement, dove vivevano le concubine descritte da Zola e i degenerati narrati da Baudelaire, su fino alle vie acciottolate di Montmartre sognando di vivere in un secolo che non era il mio. Per questo ho preso un dottorato in letteratura francese e oggi sono di nuovo qui pronta a diventare la perfetta flâneuse del ventunesimo secolo.
Inizio a camminare proprio là dove andavo in bicicletta da bambina e mi accorgo subito che poco è rimasto del mondo che Balzac e Baudelaire descrivevano. Negozi scintillanti di catene multinazionali sono più o meno ovunque e i parigini che passeggiano alzano raramente la testa dal cellulare che hanno in mano. Se qualcuno osasse portare una tartaruga in giro oggi la vedrebbe schiacciata subito. Non mi arrendo e abbandono il boulevard Haussmann per dirigermi verso la Galerie Vivienne, uno dei famosi passage di Parigi. Poche strutture evocano così bene l’Ottocento, con quell’ispirazione da suq mediorientale così in voga all’epoca. I parigini poi ci misero del loro con i lucernari in vetro che garantivano un’illuminazione naturale. Formano ancora oggi un percorso quasi continuo dai grandi boulevard alla zona degli artisti di Montmartre e sono stati il luogo ideale dove le persone, come le merci, potevano mettersi in mostra da perfetti flâneur. Ciascuna galleria ha la sua storia. Il Passages des Panoramas – reso famoso da Nana, il romanzo di Zola – è il luogo ideale per osservare i tanti personaggi che animano i caffè, ma anche le librerie antiquarie e i mercatini. In questa città ciascuno sembra essere una domanda senza risposta. Le loro storie sono lasciate alla mia immaginazione. Non posso non finire la mia passeggiata attraverso il 9° arrondissement se non al Musée de la vie romantique dedicato alla vita e agli amori di George Sand, pseudonimo di Amantine-Lucile-Aurore Dupin famosa per i suoi romanzi femministi e la sua relazione tempestosa con Frédéric Chopin, e al pittore Eugène Delacroix: tre flâneur di diritto. Se i cafè dei boulevard e le galerie rappresentano due dei palcoscenici ideali della ville spectacle, il terzo sono i grandi magazzini, quelli che Balzac definiva «Il grande poema dell’ostentazione”. Nell’Ottocento questi luoghi, innovativi all’epoca, erano molto più che spazi per fare acquisti; erano infatti posti dove vedere ed essere visti, passerelle ideali per i confronti di stile. Una sorta di Studio 54 (celeberrima discoteca di New York molto nota negli anni Settanta e Ottanta) con le casse per pagare. Incontro il mio amico d’infanzia James Geist a Le Bon Marché (al 24 di Rue de Sèvres, sulla Rive Gauche), il più antico tra i grandi magazzini parigini e che ispirò il romanzo di Zola Al paradiso delle signore. Certo, Printemps e le Galeries Lafayette sono molto più noti, ma è solo a Le Bon Marché, più lontano dalle orde di turisti, che si possono trovare scampoli della vecchia Parigi, inclusi gli interludi di flânerie ed esibizionismo che definiscono così bene la cultura di Parigi. «In questa città è tutta una questione di vedere ed essere visti», conferma il mio amico James. «Oggi è un giorno perfetto in tal senso», conferma, «Sono iniziati i saldi. Tutti i parigini sono qui per fare shopping e per vedere chi fa shopping. A New York e a Londra sono le griffe a contare. Qui è più sottile: il taglio di una scarpa, le decorazioni su una borsa, la stampa di una sciarpa, fanno tutti parte di un complesso linguaggio visivo attraverso il quale i parigini comunicano».
Il giorno dopo vado al Cafè de Flore, sul Boulevard St. Germain. Se i boulevard della riva destra furono le prime mete dei flâneur dell’Ottocento, i celebri cafè terrasses del Boulevard St. Germain divennero la casa spirituale di quella che fu chiamata la generazione perduta durante la prima guerra mondiale. Al Flore erano di casa Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Albert Camus. Oggi, nonostante i turisti, rimane, insieme al vicino e rivale Les Deux Magots, uno dei luoghi migliori dove praticare la flânerie. È difficile individuare chi la pratica oggigiorno e, come tiene a precisare senza ironia il mio amico James «è una filosofia, un ideale. Siamo tutti così egoisti, almeno a Parigi. Guardare la gente è un modo, almeno per noi parigini, di uscire dalle nostre teste e per ricordarci che comunque esistono anche gli altri». L’ultimo giorno a Parigi vado a visitare la tomba di uno dei miei idoli, Oscar Wilde, sepolto al cimitero di Père Lachaise. Lo scrittore trascorse qui i suoi ultimi mesi di vita e oggi la sua tomba è meta di pellegrinaggio costante. Sto da parte, osservo chi arriva. Guardo una ragazza che sta un po’ indietro, con un quaderno tra le mani dove prende appunti o disegna. Quando faccio per andarmene mi ferma e mi dice che le piace il mio abito e che lo avrebbe amato anche Wilde. A quel punto mi accorgo cosa stava disegnando: me.