di Isabella Brega | Foto di Isabella Brega
La terra ferita dal terremoto nel 1980 volta pagina e punta sulla cultura e sul turismo. Senza dimenticare gli straordinari vini e i prodotti gastronomici d’eccellenza
La storia per secoli l’ha solo sfiorata. E poi brutalmente 36 anni fa ha fatto irruzione presentando il conto. Il 23 novembre 1980 un terremoto ha crudelmente ferito l’Irpinia, marchiandola a fuoco nella memoria degli italiani. Eppure oggi questa verde terra di mezzo, a cavallo fra Adriatico e Tirreno, chiusa da monti severi, boschi arruffati e castelli grifagni, non ha nulla a che spartire con le immagini viste allora alla televisione. Passata la bufera questo lembo antico, ruvido, quasi calvinista, di una Campania gaudente, questa terra solidamente contadina, generosa e laboriosa, così lontana psicologicamente dalla pur vicina, scintillante Costiera, non si è più fatta mettere in un angolo ed è ripartita da se stessa.
La formica irpina ha lasciato a cantare la cicala sorrentina, ha piegato la testa, si è rimessa al lavoro e insieme alle viti e agli ulivi ha coltivato la pazienza e la speranza. Con caparbietà ha riaccumulato la scorta per l’inverno: ha ricostruito chiese e castelli, ha riconnesso il proprio spirito smarrito, ha impastato il presente con la coscienza e l’orgoglio delle proprie radici. Perché quello dell’Irpinia non è un popolo di sconfitti. Perché gli irpini non sono dei sognatori ma hanno la forza dei visionari e il senso del valore del proprio territorio. Lavorando su quello che avevano hanno recuperato tradizione e prodotti tipici agguantando così il proprio futuro. Sono tornati nei campi e nelle stalle, sono scesi in cantina, hanno riscoperto le eccellenze del territorio, recuperato le ricette delle nonne e sono entrati in cucina con le mani colme di questa terra antica e generosa per ridare vita a piatti straordinari. E ora, con una nuova consapevolezza dei propri elementi di forza, sono pronti a rivendicare un ruolo nel panorama turistico ed enogastronomico italiano.
L’Irpinia parca e rurale, terra compatta di pietra e di acqua, di piccoli centri arroccati sulle alture, dominati dal mastio del castello e dal campanile della cattedrale, con l’immancabile belvedere, i portali in pietra con gli stemmi nobiliari, i balconi arricciati in ferro battuto, gli androni gonfi di cisterne e il dedalo di viuzze che conduce quietamente alla piazza ornata di tigli e di anziani che si scaldano di chiacchiere e di sole, oggi è tutto fuorché minimal. È un trionfo di sapori, un barocco di aromi e profumi, una sinfonia di piatti, biodiversità, presidi slow food. Un’orchestra di chef appassionati, custodi della tradizione non meno che innovatori, e di prodotti d’eccellenza: olio, castagne, tartufi, salumi, mele, formaggi, miele, nocciole, peperoncini, funghi. E ottimo vino Docg grazie a 200 produttori e a 13 milioni di bottiglie di Greco di Tufo, Fiano di Avellino e il re dei rossi, l’appassionato e appassionante Taurasi, robusto e intenso come la terra che lo produce. Una terra che si racconta attraverso le proprie eccellenze e che, nella messa a sistema del comparto enogastronomico, punto di forza dell’offerta turistica ed espressione di un vivere slow, vuole continuare a essere se stessa, a difendere la propria autenticità, rifiutando l’omologazione.
Anche nel campo della cultura, come nel caso del festival internazionale di arte, cinema, musica, enogastronomia Irpinia Madre Contemporanea. Un progetto, con la direzione artistica di Giuseppe Mastronimico, importante anche per la valorizzazione di una serie di percorsi turistici, costituito da un fitto cartellone di appuntamenti, iniziato lo scorso 3 ottobre e che si concluderà il 27 gennaio con un concerto ad Altavilla Irpina, Gesualdo Consort of Gesualdo. Una serie di eventi che coinvolgono otto Comuni della provincia di Avellino: Gesualdo, capofila del progetto Altavilla Irpina, Bisaccia, Caposele, Monteverde, Rotondi, Senerchia e Bagnoli Irpino.
Oggi come secoli fa questa operazione culturale ruota intorno a quello che fu l’epicentro della cultura irpina tardorinascimentale, il massiccio castello del Principe di Venosa Carlo Gesualdo (1566-1613), grande di Spagna, eccelso madrigalista e autore di mottetti e di composizione sacre, colui che trasformò la rocca eretta dai Longobardi in una residenza signorile, con tanto di teatro e tipografia, sede di una corte raffinata, dove fu ospite anche Torquato Tasso. Il Principe madrigalista cantava l’amore ma non per questo nel 1590 risparmiò la morte alla moglie fedifraga Maria d’Avalos e al suo amante. Allo stesso modo il maniero che incombe sulla torta concentrica dell’abitato di Gesualdo, nonostante la tinta rosa pallido, non ha perso il piglio militare e il senso di isolamento che contraddistinse gli ultimi anni del Principe, che vi morì qui, consumato dalla melanconia e da cupe ossessioni religiose.
Un’altra rocca, questa volta dimora di caccia di Federico II e sede temporanea della scuola poetica siciliana, un altro paesaggio spettacolare, quello che si apre davanti alle eleganti logge cinquecentesche del Castello ducale che domina il centro storico di Bisaccia: una doppia corte, un museo archeologico ricco di eleganti fibule dell’Età del Ferro, una torre-mastio quadrata e una sequenza ritmata di 28 archetti a tutto sesto su esili pilastrini affacciata su palazzetti signorili, vicoli ossuti che prendono fiato in piccole piazze di chiese silenziose e accese partite di pallone. Qui lo scorso ottobre è stato presentato il documentario Viva Ingrid, prodotto dall’Istituto Luce e realizzato con i filmini girati da Ingrid Bergman nel corso del suo matrimonio con Roberto Rossellini. Sempre qui il regista Mario Martone ha proiettato il video documentario Terrae Motus dedicato al gallerista napoletano Lucio Amelio che, dopo il sisma, coinvolse oltre 60 artisti internazionali in un progetto di rinascita cultura legato alla creazione di opere sul tema del terremoto firmate da maestri del calibro di Beuys, Warhol, Gilbert & George, Mapplethorpe, Pistoletto. Peraltro l’Irpinia che ha dato i natali a Francesco De Sanctis e a Ettore Scola, ospita artisti come Eugenio Giliberti, Umberto Manzo, Perino & Vele, Lucio e Peppe Perone. Tutti coinvolti nel progetto Irpinia Madre Contemporanea, tutti abitanti nello stesso paese, Rotondi, e nella stessa via Varco.
Stretta ai piedi delle rovine del suo castello del IX secolo anche Rocca San Felice, il cui baricentro è rappresentato dalla bella piazza in cui campeggia un gigantesco tiglio piantato dopo la rivoluzione francese come albero della libertà. Un dedalo di scale e viuzze costeggiate da muretti ed edifici in pietra percorre il borgo medievale spingendo il visitatore su verso la chiesa madre e il piccolo museo archeologico, affollato di bacini in terracotta invetriata dipinta. Nei pressi del borgo, in località Carmasciano, dove si avvertono prepotenti le esalazioni solforose della Valle d’Ansanto, una serie di piccole aziende a conduzione familiare continua la lavorazione di un particolare tipo di pecorino stagionato ottenuto dal latte di pecore di razza laticauda: soli 50mila capi in tutto l’Appennino campano. Ma a Carmasciano, oltre alla tradizione si porta avanti anche la sperimentazione, come quella di Giuseppe Moscillo dell’azienda D’Apolito che con lo stesso latte di pecora produce anche mozzarella. Questa è l’Irpinia giovane, terra di cambiamento, che cerca nuove strade per la valorizzazione delle eccellenze enogastronomiche. La stessa filosofia che a Nusco, importante centro vescovile nel Parco regionale dei monti Picentini, arroccato a 900 metri di altezza su una veduta spettacolare, muove Cena, un campus enogastronomico di formazione, ricerca e sperimentazione. Qui, nel cuore del centro storico, lindo e curato come un presepe, con i ruderi dell’immancabile castello, la cattedrale del XVI secolo e il Museo diocesano, è possibile avvicinarsi alla cucina dello chef Antonio Pisaniello, una stella Michelin a premiare una cucina rurale rivisitata con fantasia e passione.
Altra tappa l’Abbazia del Goleto, nei pressi delle sorgenti dell’Ofanto e di Sant’Angelo dei Lombardi. Un complesso religioso cinto da mura, fondato nel 1133 da Guglielmo da Vercelli. Una chiesa inferiore in stile romanico pugliese, una superiore gotica, del 1255, intitolata a S. Luca, la Torre Febronia del 1152, che include i bassorilievi di un mausoleo funerario romano. Il chiostro del convento maschile introduce ai grandiosi resti della chiesa maggiore: colonne, archi sbrecciati, frammenti di decorazione, il cielo come soffitto. Simbolo di come il restauro non possa rimediare totalmente ai torti del tempo e della natura. Di come oggi questa non sia più l’Irpinia del terremoto, ma una terra sicura di sé e delle proprie scelte, che non vuole più guardare indietro. Ha voltato pagina e può permettersi di lasciar intravvedere le proprie ferite senza l’ansia di doverle cancellare a tutti i costi. Sono solo cicatrici che le ricordano quanta strada ha fatto. Perché qui la storia si è rimessa in moto.