di Clelia Arduini | Fotografie di Max Rella
Alla scoperta del Gansu, tra surreali parchi artificiali a tema dispersi nelle sabbie del deserto e antiche grotte popolate da oltre 7mila statuine di Buddha
Scivolare al tramonto con lo snowboard sulle dune del deserto o fare surf sulla sabbia mentre tutto attorno si colora di rosso e il vento tra i granelli sussurra paurosi richiami e ti fa sentire parte di un miraggio. È l’ultima trovata dei cinesi che – per fare business e aprire al turismo territori interni finora sfuggiti al “grande balzo in avanti” – stanno addomesticando con infrastrutture nuove di zecca e attività ricreative quella parte di deserto del Gobi che dalla Mongolia penetra tra le province del Gansu e dello Xinjiang, a nordest della Cina. Una creatura mostruosa lunga circa 3.500 chilometri che incute timore per la temperatura surreale (da meno 50°C a più 50°C) per il nulla a perdita d’occhio, per quel tutto nascosto sotto l’argilla. Un invisibile mondo animale, vegetale e minerale, racchiuso in un terrificante organismo.
Tutto questo avviene nei dintorni di Dunhuang, nella prefettura di Jiuquan, provincia amministrativa di Gansu. La città, il cui nome vuol dire banco di sabbia, era un’oasi sulla Via della seta e l’anno scorso è entrata sotto l’egida dell’Unesco insieme ad altre 32 tappe divise tra Cina, Kazakhstan e Kyrgyzstan, lungo il corridoio Chang’an–Tien Sha: ben cinquemila di quegli ottomila chilometri che componevano l’ultramillenario percorso carovaniero tra Oriente e Occidente. Fuori l’abitato il deserto travolge con il suo silenzio; dopo cinque chilometri una porta che sembra uno stargate, il passaggio in un’altra dimensione, si materializza dal nulla, ma è solo l’ingresso nel regno delle colline Ming Sha. Da una parte le “dune che sussurrano”, circa 40 chilometri di rilievi sabbiosi che sfiorano i mille metri, una vera rarità per il pietroso e argilloso Gobi, dall’altra il lago Yueyaquan o “lago della luna crescente” , detto così per la sua forma a mezzaluna. Lo specchio azzurro, vicino a una grande pagoda con negozi di souvenir, è un’altra rarità visto che i deserti di solito sono incompatibili con i laghi. Qui però c’è la mano dell’uomo che ogni tanto interviene a rimpinzare la cavità di acqua a rischio continuo di evaporazione.
Lo spazio circostante è immenso e le persone sembrano formiche con le zampe arancioni: sono i calzari di cui debbono dotarsi per questioni di sicurezza. C’è chi fa escursioni a bordo di 4x4, chi si precipita a valle con i quad, chi ondeggia sui cammelli, chi sceglie il surf e si butta sul pelo della sabbia, c’è persino chi si lancia con il parapendio dalla cima delle dune e chi, allungato sulla sabbia, aspetta che il sole tramonti perché quello è l’attimo più bello, l’attimo in cui cielo e deserto diventano dello stesso colore e la luce è così trasparente che le cose distanti sembrano a portata di mano. L’effetto dell’assenza di vapor acqueo nell’aria.
Ancora qualche chilometro di piccola Disney, sagome in legno di cammelli in fila indiana, un poliziotto-pupazzo cristallizzato sul ciglio polveroso, poi arriva l’immenso dove non si gioca più: conche ghiaiose a perdita d’occhio, cespugli che rotolano spinti da un vento spinoso, mulinelli di sabbia che preparano tempeste, rocce che sembrano relitti di navi a ricordare che qui, in un tempo ancestrale, c’era il mare. In questa massa geologica piena di niente appare un altro stargate, un ingresso fresco di costruzione dove si paga il biglietto per accedere al passo Yumen, passaggio strategico lungo la Via della seta attraverso cui erano trasportate le giade dalla Regione occidentale alla Pianura centrale (da cui il nome, Yu-giada, Men-portale). Quel che rimane dell’avamposto ha forma quadrata e mura di terra battuta mentre a qualche centinaia di metri è un tratto della Grande Muraglia risalente alla dinastia Han. Da qualche mese c’è pure un museo realizzato con i colori del deserto, che racconta la storia del passo Yumen e di altre terre lungo questa sezione della Via della seta.
Un’altra macinata di deserto ed ecco il Parco geologico nazionale Yadan, che si trova al confine con la provincia autonoma dello Xinjiang, quella a maggioranza musulmana. Da qui Dunhuang dista 185 chilometri. Gli oltre 346 chilometri quadrati di incredibili formazioni rocciose si possono esplorare con bus collettivi che sostano nei punti più panoramici lungo l’unica strada di accesso, ma anche a bordo di una jeep, a un prezzo aggiuntivo. Lo chiamano anche “città dei fantasmi” perché quando il vento fischia tra i pietroni erosi sembra che qualcuno risponda. Si tratta certo del solito giochetto turistico per rendere tutto più magico, di là le dune che sussurrano, di qua i fantasmi che ululano, ma non c’è bisogno di artifici in un luogo così speciale dove, per citare Antoine de Saint-Exupery autore del Piccolo Principe: «Non si vede nulla, non si sente nulla e tuttavia qualcosa risplende nel silenzio».
Sono le rocce a forma di leone, di sfinge, di colomba, e mille altre sculture che da milioni di anni vivono una loro vita segreta sotto il cielo del Gobi, con le sembianze che un vento artista e pazzerello ha dato loro. Ma sono anche i segreti militari che si celano nel deserto: c’è da queste parti un aeroporto e forse una base dell’esercito, lo si deduce dai chilometri di filo spinato che corrono da una parte della strada e poi c’è il tracciato di una nuova grande strada che presto sarà realizzata. Si tratta probabilmente di una delle iniziative che il Governo cinese sta attuando per finire un progetto che per noi, che non siamo a riusciti in 40 anni a realizzare l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, suona metafisico: collegare Cina, Russia ed Europa lungo il tracciato delle antiche vie carovaniere che attraversavano l’Asia Centrale all’epoca di Gengis Khan, dell’Orda d’Oro e di Tamerlano.
il deserto incantato regala un altro tesoro, Patrimonio mondiale dell’umanità dal 1987: le grotte di Mogao, a 25 chilometri a sud est da Dunhuang, la più grande collezione di arte buddhista cinese, creata a partire dal 366 d.C., con 3.390 figure d’argilla dipinte, 4.000 figure di apsaras (spiriti femmina delle nubi e delle acque nelle mitologie indù e buddista) e oltre 42.000 metri quadrati di affreschi suddivisi in 492 grotte scavate nella roccia di una rupe lunga 1.600 metri. Una enorme delizia che il Governo cerca di tutelare visto il dannoso assembramento nelle fragili cavità dei visitatori che aumentano di anno in anno (nel 2014 sono stati 800mila). Con un investimento di oltre 200 milioni di yuan (oltre 150 milioni di euro), è stata realizzata una versione virtuale delle grotte, che consente un viaggio tridimensionale delle cavità in modo che i visitatori, dopo aver visto il film, accedano alle grotte per un tempo più limitato e c’è anche un Centro esposizioni con diverse riproduzioni. Certo è che la visita vera e propria è un’altra cosa: quasi commuove il tenue fascio di luce con cui la guida illumina le grotte affrescate, svelando gli sguardi imperturbabili delle statue scolorite, sorprese nella loro grandezza e fragilità. Sono attimi di folgorante bellezza, poi il buio torna a custodire la loro millenaria sacralità.
A Dunhuang, che con i suoi 180mila abitanti è davvero una cittadina per gli standard cinesi, intanto si accendono le luci del mercato di Shazhou, e i commercianti cominciano a trattare sui prezzi della merce in vendita. Attorno le inquiete sabbie del Gobi si preparano alla gelida notte. Non si vede nulla, non si sente nulla e tuttavia qualcosa risplende nel silenzio, è la Cina che prepara a modo suo, tra Confucio, Deng Xiaoping e Mao Zedon, la Via della seta del XXI secolo.