di Valerio Magrelli | Fotografie di Giacomo Fé
I borghi della Maremma laziale sono immersi in una natura ricca ma sono anche uno scrigno di storie segrete che vanno dai legionari romani al papa Farnese, da Stendhal a Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone
Pare che l’ex direttore delle guide Lonely Planet, interpellato sui due luoghi più belli e meno noti al mondo, abbia risposto: «Al primo posto collocherei l’isola della Nuova Zelanda in cui abito. Quanto al secondo, è situato agli antipodi, in una zona dell’Italia centrale a bassa densità di popolazione, fra Viterbo, Orvieto e il Tirreno». Stiamo parlando, insomma, della Tuscia, che ha così ricevuto uno fra i massimi riconoscimenti immaginabili. Mi è capitato già di riportare questa intervista, ma credo che la sua importanza ne giustifichi la ripetizione. Anche noi, dunque, abbiamo la nostra Nuova Zelanda, ed è quella che alcuni (peraltro assai criticati dai toscani) definiscono come Maremma laziale.
Il motivo delle critiche è presto detto. Enorme risulta infatti la differenza fra le due culture. Mentre il paesaggio in provincia di Grosseto è protetto, talvolta sin troppo curato, con borghi consacrati al turismo di lusso, la provincia di Viterbo, dominata com’è dal cupo tufo, risulta invece rustica, severa se non selvaggia, oltre che molto spesso sfregiata da abusi edilizi. Tuttora caratterizzato da latifondi, questo secondo territorio permette la scoperta, davvero rara nel nostro Paese, di immensi spazi incontaminati. Il risultato è che, passando il confine verso Sud, i prezzi di terreni e abitazioni, o i costi di negozi e ristoranti, si dimezzano. Da qui la battuta di alcuni toscani, i quali, dopo aver ospitato qualche amico laziale, al momento del rientro, ironizzano: «È ora che torniate nella Ddr...». Avercene, di simili Ddr!
Strade meravigliose, come quella fra Canino e Manciano, sprofondata nel verde, senza una casa, con uliveti a perdita d’occhio e boschi, fiumi, secolari ponti di pietra, laghetti nascosti. Oppure, una chiesetta del Sangallo, a Cellere, che sbuca da una curva, come niente fosse. Non parliamo poi dei romitori del XIII secolo, fra i quali spicca una specie di Petra scavata nella roccia al riparo di una cascata, lungo il fiume Fiora. Proprio il Fiora ci porta al Parco archeologico di Vulci, da cui proviene la leggendaria Tomba François (ormai sepolta negli abissi del museo dei Torlonia, a Roma, chiuso da anni e che tanto alletta acquirenti statunitensi). Al di là dell’interesse storico, il sito etrusco si raccomanda per le bellezze naturali e artistiche, che il cinema ha sfruttato a dovere. Dov’è il castello che troneggia in L’Armata Brancaleone di Mario Monicelli? E dov’è lo specchio d’acqua in cui nuotano Aldo, Giovanni e Giacomo, nel film Tre uomini e una gamba? «Vulci, Vulci, fortissimamente Vulci» uno spazio toccante, che, d’estate, ospita cicli di concerti all’aperto.
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Di antiche civiltà si occupò D.H. Lawrence in Luoghi etruschi, dove lo scrittore alterna la descrizione delle necropoli a quella della campagna malarica intorno a Montalto, passando dall’amore per il popolo di Porsenna, all’odio per l’imperialismo della civiltà romana (prima latina, poi fascista). Affascinato dall’istintualità della misteriosa cultura scomparsa, l’autore inglese vide nell’universo delle necropoli un mitico luogo di elezione. Insomma, gli Etruschi di D.H. Lawrence somigliano ai suoi amati messicani, reperti di un’antropologia fossile, eppure umanissima. Ma la meta del nostro viaggio non sono gli splendidi dintorni (con le imperdibili Tarquinia, Tuscania, Farnese o la labirintica Selva del Lamone, dove finì smarrito persino l’esercito romano), né le toccanti rovine di Castro, edificata da architetti come il Sangallo e distrutta da Papa Innocenzo X nel 1649, con rovine nascoste da una giungla simil-sudamericana.
No, noi puntiamo sulla piccola, sorprendente Canino, capitale dell’olio d’oliva, ma anche scrigno di storie segrete. Il ducato di Castro fu istituito nel 1537 da Paolo III Farnese, lo stesso nome della famosa statua di Ercole, del palazzo romano che oggi ospita l’ambasciata di Francia, o della villa sul lungotevere battezzata col suo diminutivo (la Farnesina). Nativo di Canino, questo grande Papa fondò la stirpe che, secoli dopo, regnò su Parma. Ora, attenzione! Parma è la città in cui Stendhal ambientò La Certosa, ma lo stesso Stendhal, combinazione, visse un certo periodo a Civitavecchia (ad appena una quarantina di chilometri da Canino), dove era stato “esiliato” dopo Waterloo in quanto bonapartista. Ebbene, neanche a farlo apposta, pochi anni prima, sempre proveniente da Parigi, il più brillante tra i fratelli di Napoleone, Luciano Bonaparte, era fuggito proprio a Canino, divenendone principe per volere di Papa Pio VII nel 1814, oltre che spregiudicato pioniere degli scavi etruschi: terribile una lettera in cui il fratello di Napoleone invita i suoi tombaroli a portar via gli oggetti pregiati, polverizzando tutto il resto, per evitare il crollo dei prezzi...
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Il motivo del trasferimento a Roma, avvenuto nel 1804, va indicato nel suo matrimonio con Alexandrine de Bleschamp, violentemente osteggiato da un Napoleone che per lui progettava ben più utili matrimoni dinastici. Insomma, per amore, il braccio destro dell’Imperatore divenne il signorotto di un paesello sperduto nelle campagne del Lazio. Niente di strano, dunque, se Stendhal, che aveva seguito l’esercito francese fino a vedere Mosca in fiamme, si precipitò a omaggiare un membro della mitica famiglia. Per farlo, tuttavia, egli dovette nascondere le proprie mire ai “padroni” austriaci. Era il 1835, e forse fu proprio da quella visita, insieme farnesiana e bonapartista, che nacque il primo germe della Certosa di Parma, come hanno spiegato le ricerche di Ludovica Cirrincione D’Amelio, docente di letteratura francese all’Università della Tuscia, a Viterbo.
Così, con i suoi seimila abitanti, Canino nasconde un passato davvero degno di una capitale: un passato che deve la sua duplice grandezza da un lato ai Farnese, dall’altro ai napoleonidi. Quanto al paese, il cui centro storico appare ancora ben conservato, non manca una fontana del Vignola, oltre al teatro e a una biblioteca pubblica, insieme a un fortissimo senso identitario che si traduce in feste, sagre, mercati, sfilate, cerimonie. Niente di speciale, certo, rispetto a tanti altri abitati dei paraggi. Ma oggi il fascino della Tuscia va cercato nella misura, nella discrezione. Centri come Canino, oltre ad aver saputo assorbire una considerevole quantità di emigrati, hanno conservato una dimensione che spesso altrove è oramai tragicamente smarrita. È a questa posizione defilata che si riferiva l’ex direttore di Lonely Planet, salutando la zona di Canino dal fondo di un’isoletta nel Pacifico.
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