di Stefano Brambilla | Foto di Stefano Brambilla
Teatro di una guerra nel 1982, le isole al largo del Sudamerica sono un eden naturalistico straordinario. Per chi cerca solitudine, grandi spazi e un contatto ravvicinato con gli animali
Sabato, la sorpresa. Sul davanzale della cucina, Arnette tiene un binocolo. «Serve per vedere che cosa succede nel fiordo» spiega sorridente, mentre mi versa una tazza di Earl Grey. «Sai, ogni tanto passa una balena». È un benvenuto straniante e sorprendente allo stesso tempo, quello che ti danno le Falkland. Il foglietto che viene consegnato appena fuori dall’aereo, con variegati suggerimenti su come comportarsi in loco: mai, per esempio, sventolare una bandiera argentina. La gigantesca base militare – praticamente un paese – che si intravede nel tragitto verso Stanley, persa in un mare di erba e di pecore. Le cabine telefoniche della capitale, alte e rosse come quelle del centro di Londra. E ora una gentile signora che nel suo b&b vista fiordo celebra il rituale del tè delle cinque, chiacchierando di navi da crociera, tosatura delle pecore e nipoti che studiano in Inghilterra e ogni mese tornano a casa su un aereo militare. Come se fossimo, chessò, a Dublino o a Edimburgo. Devo fare mente locale per ricordare che ho impiegato due giorni ad arrivare. Che sono dall’altra parte del mondo.
Domenica, l’emozione. Dall’alto, le Falkland sono desolate e bellissime. Non c’è un albero – troppo vento. Non c’è un paese, al di fuori di Stanley – solo qualche casa sparsa qua e là. Gli albatri planano sfiorando le onde dell’oceano, che dell’oceano in realtà ha ben poco e somiglia più al mare della Sardegna, tanto le acque sono cristalline e le spiagge bianche, perfette nelle loro mezzelune. «Saranno contenti quelli di Bleaker, oggi è arrivata posta per loro!». Chris, il pilota del piccolo bimotore rosso fuoco, urla nelle cuffie, destandomi dall’emozione del volo. Mi racconta che è un tuttofare: pompiere, pilota, squadra di soccorso, postino, guida turistica all’occorrenza. D’altronde, la Figas, la compagnia aerea locale, generosamente sostenuta dalla madrepatria, provvede a (quasi) tutto: non c’è altro mezzo che colleghi un’isola all’altra, che porti i turisti in vacanza, che accorra in caso di bisogno. «Ogni giorno facciamo un piano di volo a seconda delle richieste e lo comunichiamo alle isole. Fino alla sera prima, non sai mai a che ora potrai partire il giorno dopo!» ride. Atterriamo. Dopo due minuti sono circondato dai pinguini. Non hanno paura. Anzi, vengono a vedere chi sei. Fino quasi a toccarti. Non ci posso credere, devo cambiare il teleobiettivo con il grandangolo.
Lunedì, il privilegio. A Bleaker Island comincio a capire perché si dovrebbe aggiungere le Falkland alla lista dei viaggi da fare. Il lodge bellissimo, il padrone di casa inglese che ha comprato l’isola e ne ha fatto la sua dimora, l’atmosfera rurale e familiare. Ma soprattutto è la bellezza di essere da soli, a colpire, il privilegio dell’esperienza riservata, personale. Il contatto con il mondo animale solo per te. Mangiare un sandwich circondato dai pinguini saltarocce, in alto su una scogliera guardando il mare, non ha prezzo. E hai tutta l’isola a disposizione, puoi andare ovunque, camminare, fermarti dove vuoi, pensare, fotografare, guardare, attendere. Tanto qualcosa succederà. È talmente pieno di vita! Ci sono i pinguini di Magellano che si nascondono nelle tane, i cormorani reali indaffarati a nutrire i piccoli, a loro volta assediati dai malefici stercorari, le oche che camminano tra le pecore, i giovani pinguini papua che escono dal mare e dondolano in processione – per centinaia di metri - fino alla colonia. Verrebbe da accarezzare i piumosissimi pulcini di procellarie che aspettano sulla spiaggia i genitori, immobili. In questi giorni siamo quattro ospiti, a Bleaker Island. Pranziamo insieme, chiacchieriamo, poi ognuno cerca il suo scorcio, il suo pinguino.
Martedì, l’attesa. L’aereo dovrebbe venire a prendermi alle 9. Ma come? Sono arrivato a Sea Lion Island ieri sera alle 17 e mi fanno ripartire alle 9? «That’s the Falkland’s life» sorride la manager del lodge. Comincio a capire perché la maggior parte dei turisti prenota almeno due notti sulla stessa isola: almeno c’è un giorno intero per esplorarla. Però è brutto, oggi. Il sole di ieri lascia il posto a un cielo grigio ardesia, poi alla pioggia. Via telefono viene comunicato che il volo è ritardato alle 11, poi alle 13, il meteo è troppo sfavorevole. Tento di fare il giro di una parte dell’isola, mi prendo un rovescio mica da ridere, torno fradicio. Le ore successive sono passate ad aspettare la telefonata di Figas. Ogni squillo è un momento di trepidazione: si parte o non si parte? Buone o cattive notizie? Fuori dalla finestra, i pinguini papua sono zuppi, ma non sembrano troppo preoccupati. Alla fine non si vola: c’è troppa nebbia a Stanley, tutti i voli sono annullati. Non vedrò mai Weddell Island, dove avrei dovuto passare la giornata. Ma c’è un vantaggio: alle 17 spiove, c’è tempo per un giro, a cinque minuti dal lodge la spiaggia è piena di elefanti marini. Sono creature enormi, mostruose, spropositate, sembrano uscite da un bestiario medievale. Non ho mai visto animali così grandi e così lenti nello stesso tempo: per percorrere qualche metro ci mettono minuti, tanto è il peso del corpo che devono trascinare. Nell’aria è un campionario di grugniti, fischi, lamenti, ringhi rabbiosi, gli elefanti si fronteggiano per gioco nella luce del tramonto. Ringrazio la Figas per non essere arrivata, oggi.
Mercoledì, l’empatia. Pebble Island ci dà la conferma di quello che avevamo intuito: ogni isola dell’arcipelago è diversa dall’altra. Diversa per atmosfera, per accoglienza, per opportunità. Pebble, per esempio, ha un lodge più rustico dei precedenti – è una fattoria riadattata, una sorta di grande estancia - ma è grandissima, ideale per camminare per giorni, ricca di laghi scintillanti, di dune, di scogliere da cui osservare il volo perfetto degli albatri. Vengo portato in giro da Catherine: mai vista una ragazza così entusiasta, capace, intelligente. Sa tutto delle sue Falkland, dove è tornata insieme al fidanzato perché ha trovato «un posto rispondente alla mia ricerca di natura, semplicità, equità». Dopo cena, andiamo a vedere i ricordi della guerra. Cat si commuove nel raccontarmi le vicende della HMS Coventry, la nave che venne affondata da aerei argentini nel maggio 1982 al largo di Pebble. Nelle sue parole si alternano la tenacia, il coraggio, l’eroismo, la tragedia, la morte, la speranza di quelli che ritornano a vedere i luoghi del conflitto e lasciano una corona di papaveri rossi. C’è anche la gratitudine di una isolana per chi ha portato la libertà. Cat aveva un anno nel 1982, ma per lei, come per tutti gli abitanti delle Falkland, chi è arrivato dalla Gran Bretagna a liberare le isole dagli argentini è un eroe cui sarà grato per sempre. La croce che commemora la nave è suggestiva e inquietante, nella luce grigia e blu della notte. Come se fosse un monito, un segnale. All’emozione per lo spettacolo della natura aggiungo l’emozione per quello che successe soltanto trent’anni fa, quando una nazione decise di invadere un’altra nel bel mezzo di un giorno di inverno. Sì, ogni isola è diversa alle Falkland, ognuna lascia qualcosa di unico. Grazie alle persone, al meteo, alle occasioni, agli animali. Alla storia, alle storie.
Giovedì, la riflessione. A Stanley il sole splende sul busto della Thatcher, inaugurato solo qualche giorno fa. Fu lei che nel 1982 decise l’intervento armato e che pronunciò le famose parole, scritte anche in calce al busto: “Sono pochi in numero, ma hanno il diritto di vivere in pace, di scegliere il loro stile di vita e di autodeterminarsi politicamente”. Il museo di Stanley puntualizza come l’autoderminazione sia alla base di tutto: nel 2013, furono solo in tre a votare “no” al referendum che chiedeva se gli abitanti volessero rimanere sotto la Gran Bretagna. Dicono peraltro che al momento della votazione i tre fossero ubriachi. Passo ore ad ascoltare, nel bel museo, i resoconti del 1982, quando la gente vide i carri armati spuntare improvvisamente per le strade. Il ricordo è ancora vivo. «D’altronde qui non c’è nulla di argentino» mi spiega il custode. «Dal 1592 siamo solo inglesi: perché dovremmo appartenere a un’altra nazione? Io non capisco quando chiamano le nostre isole Malvinas, loro non ci hanno mai abitato, vogliono solo sfruttare le nostre risorse, il pesce, le pecore, il petrolio. Pensa che alcuni argentini che arrivano in crociera non portano il passaporto perché ritengono di andare in Argentina. E ovviamente noi non li lasciamo scendere dalla nave». Si spiega perché per giungere alle isole l’aereo debba passare dal Cile.
Venerdì, la perfezione. Arrivare alla colonia di pinguini reali di Volunteer Point, tre ore d’auto da Stanley, è come entrare in un quadro astratto. Le linee del corpo, i colori della livrea, le sfumature delle piume, ogni particolare trasuda un che di irreale, quasi di finto nella sua incredibile precisione e bellezza. I pinguini, uno accanto all’altro con il loro uovo sulle zampe, sfidano il vento voltati dalla stessa parte. Sono grandi, rispetto alle altre quattro specie viste finora. Imperturbabili, fieri. Perfetti. Quasi gentlemen in attesa di un tè. È l’ultima immagine delle isole: domani è di nuovo sabato, arriverà un aereo da Punta Arenas e tornerò verso casa. Lascio i pinguini in punta di piedi, sperando che chiunque mi segua abbia il buon senso di fare la stessa cosa.