di Emilia Patruno | Fotografie di Giacomo Fè
Sull’onda della passione per la città marocchina, tra caffè, storie e personaggi che hanno reso mitico e fatale questo incrocio di civiltà. Definita da molti, all’epoca, una città equivoca, attirò a sé uno stuolo di intellettuali
Tangeri, città del mio cuore. Così profondamente mia da non ricordare da quanti anni la conosco. Un insieme di ricordi, emozioni, e luce difficile da raccontare. Ci arrivai, con mio marito, nel 1985, alla fine di un giro in Marocco. Lui voleva tornare a Chaouen, dove era stato molti anni prima. E Chaouen mi piacque molto, ma solo perché non avevo ancora visto Tangeri. Tangeri, vista e amata al primo sguardo. All’entrata dello stretto di Gibilterra, addossata al Rif marocchino, Tangeri che veglia su una delle baie più belle del mondo. Incrocio di civiltà, porta d’entrata del continente africano, la Ville Blanche osserva anche l’Europa come una promessa. La nostalgia non l’ha soffocata: ma rimane comunque di non facile definizione se non attraverso la vita di chi l’ha scelta.
Certo, i personaggi che hanno fatto di Tangeri, per tutta la prima metà del Secolo Breve, la “città dei sogni” di un’eclettica comunità internazionale di espatriati ed esiliati di varia provenienza, non ci sono più. Non ci sono più i protetti per oltre trent’anni, dal 1923 al 1956, dal limbo di una “Zona Internazionale” gestita dalla fumosa autorità dei rappresentanti di nove Grandi Potenze dell’epoca, i rifugiati spagnoli e centro-europei che fuggivano da dittature e da guerre, i nazionalisti marocchini che non volevano vivere sotto il tallone dei protettorati francese e spagnolo, i trafficanti d’ogni risma, finanzieri e banchieri, gli avventurieri di ogni genere e i residenti locali, tutti irresistibilmente attratti dalle delizie di un paradiso fiscale con oltre settanta banche (si trovavano in tutta la città ma specialmente nel Petit Socco) in cui era possibile qualsiasi transazione finanziaria severamente proibita altrove.
Una città di tutte le libertà, avamposto dell’Europa in Africa o dell’Africa in Europa. Nessuno ha saputo mai definirla una volta per tutte. Il fatto è che a Tangeri non si viene per quello che è, ma per un’immagine romantica e maledetta, tramandata dalla memoria collettiva e nutrita a sazietà da cinema e letteratura. La tratta delle bianche, droga e contrabbando, bar e bordelli frequentati da ambigui marinai e spie internazionali: un’immagine così forte da oscurare anche un presente totalmente diverso. L’oggi si può raccontare, forse, solo attraverso immagini belle come queste del servizio che vi proponiamo. Ma è inutile cercare di liberarsi delle figure del passato, liquidandole come “fantasmi illustri”. Le tracce lasciate da alcuni personaggi, tra più grandi di ieri e di oggi, non si possono cancellare. Paul Morand, Mohammed Choukri, Saint-Exupéry, Albert Camus, Samuel Beckett, Tennessee Williams, Tahar Ben Jelloun... Tutti, senza eccezione, si sono seduti ai tavoli del Grand Café de Paris e del Café de France, di fronte. Tutti hanno varcato la soglia della libreria Des Colonnes in boulevard Pasteur, in cui si possono ancora trovare le opere di autori internazionali dall’animo “tangerino”. Molti di loro si sono avventurati nel Petit Socco fino al Cafè Tingis o al Fuentes, luoghi di appuntamento della stampa e degli intellettuali dell’epoca. Tutti hanno assistito al tramonto dalle terrazze del Cafè Hafa, luogo da sempre frequentato dai vip di tutto il mondo, da Sean Connery ai Rolling Stones.
E gli artisti. Gli unici, forse, in grado di fissare le emozioni, i colori, i profumi, le suggestioni. Gli artisti. Tanti da fare un elenco lungo quanto la costa marocchina fino ad Agadir: Robert Rauschenberg, James Brown (che andava a Tetuan per dipingere), Francis Bacon, per mesi chiuso nell’oscurità della Pension Massilia, Julian Schnabel, Claudio Bravo, Arnaldo Pomodoro, Ermanno Casasco (paesaggista, che a Tangeri ha realizzato alcuni incantevoli giardini mediterranei).
Scriveva Gianfranco Pardi, in un breve testo introduttivo a un suo libro di fotografe a proposito della Ville Blanche: «C’è un detto, che si cita a Tangeri: Ne pleure celui qui connut Tanger, Tanger pleure ceux qui ne la connaissent point» (Non piangano quelli che hanno conosciuto Tangeri, Tangeri piange quelli che non la conobbero). Ogni tanto s’incontra qualcuno che cita con grandi enfasi queste parole. Ma che cosa può significare una città che piange quelli che non la conoscono affatto? Forse che Tangeri è come una bella donna che desidera essere corteggiata? In questi ultimi anni ho cercato di conoscere Tangeri, ma forse mi è riuscito solamente di vederla, di guardarla, appunto, come una bella, inavvicinabile, signora. Una bella, elegante dama con i segni di una gloriosa giovinezza. Nella disperata corsa a uno sviluppo caotico che percorre un malinteso modello occidentale, la città si dibatte tra un precipitoso progetto di modernizzazione e la resistenza a quel modello. Le fotografie, come tutte le fotografie, non registrano una verità ma un amorevole punto di vista, uno sguardo da lontano su quella parte di vita della città che ancora porta i segni del suo antico fascino, insieme alle turbolenze di un difficile cambiamento.
Certo Tangeri non è più la città internazionale che ha vissuto il mito dei grandi artisti e scrittori che l’hanno attraversata ma non è nemmeno più la città esotica di quel mito. Non c’è segno di nostalgia nella vita di strada, nelle interminabili sedute nei tanti caffè, nelle soste al Marshan (il quartiere del famoso Café Hafa, ndr), in vista del mare al crepuscolo. C’è tanta gente, tanti giovani, tanto affannarsi per il lavoro e una tenue speranza di un domani migliore. Qui, in questo Paese. Senza dovere attraversare le Colonne d’Ercole.
Tangeri piange quelli che non la conoscono affatto perché chiede che, sollevato il velo dello stereotipo esotico, la si guardi più da vicino, si cerchi appunto di conoscerla per quello che è e che vuole diventare.