di Giuseppe Scaraffia
Dal Cairo fin giù al Mar Rosso, il viaggio che fece nel 1849 lo scrittore francese nel Vicino Oriente, tra templi, piramidi e piazze pullulanti di saltimbanchi e buffoni
Il 15 novembre 1849 Flaubert e il suo amico Maxime Du Camp approdavano ad Alessandria d’Egitto. Una volta sbarcato, era rimasto assordato dal clamore e dai colori. «Mi sono fatto una scorpacciata di colori, come un asino che si rimpinza d’avena».
Al Cairo si era fatto rasare i capelli e aveva adottato un fez scarlatto e un camicione nubiano. Gli piacevano le strade pullulanti di costumi di ogni Paese, le piazze gremite di saltimbanchi e di buffoni. Le donne velate portavano ornamenti oscillanti sul naso come le bardature di un cavallo, ma il seno era ben visibile. Vedendo le Piramidi aveva lanciato il cavallo alla massima velocità fermandosi solo ai piedi della Sfinge.
«Al tramonto la Sfinge e le tre Piramidi tutte rosa sembravano annegare nella luce, il vecchio mostro ci guardava fissamente con un’aria terrificante».
Era stato impossibile piantare le tende vicino alle piramidi di Saqqara, perché il terreno brulicava di scorpioni. Per godere il panorama si erano arrampicati, senza saperlo, sulla collina in cui era sepolto il Serapeo. A File, indifferente alle rovine, lo scrittore si era sistemato al fresco in una sala del tempio di Iside per leggersi un romanzo francese acquistato al Cairo.
Di lì proseguirono per l’Alto Egitto e la Nubia. Per risalire il Nilo «piatto come un fiume d’olio» avevano noleggiato un grosso barcone. Prima di salpare avevano fatto le provviste che andavano da vasi d’argilla porosa per filtrare l’acqua fino alla bandiera francese e ai narghilè. I dodici uomini d’equipaggio remavano al ritmo di una canzone. «Sdraiati sui tappeti, fumando i narghilè, viviamo silenziosamente scivolando lungo le rive. Quando si vede una rovina, il rais ferma la barca».
P { margin-bottom: 0.21cm; } I due amici erano molto diversi. L’entusiasta e dinamico Du Camp si irritava per la calma di Flaubert, sempre assorto nei suoi pensieri. «Gli sarebbe piaciuto viaggiare sdraiato su un divano e vedere, senza muoversi, i paesaggi, le rovine e le città». Nei primi giorni anche se non si lamentava, Flaubert era palesemente deluso da quell’Oriente così diverso da quello che aveva sognato.
Tutti i templi, i paesaggi e le moschee gli sembravano identici. Ma davanti alla seconda cataratta del Nilo aveva gridato: «Ho trovato! Eureka! La chiamerò Emma Bovary!»
Si erano spinti fino al Mar Rosso per nuotare nelle acque che avevano inghiottito il faraone, salvando Mosé. Al ritorno, dopo una sosta al Cairo, avevano deciso di traversare il deserto. Ma il caldo era tremendo e, quando gli otri di acqua potabile si spaccarono, furono tormentati dalla sete. Litigarono e non si parlarono per due giorni, finché non poterono dissetarsi con l’acqua del Nilo.
Ormai Flaubert si era riconciliato con quelle strane regioni. «Finora l’Oriente è stato visto come una cosa scintillante, stridente, appassionata, esasperata. Si vedono solo baiadere, scimitarre, fanatismo, voluttà… ma io l’ho sentito in un modo diverso. Quel che mi piace nell’Oriente è questa grandezza che si ignora, questa armonia di cose disparate».