Il viaggiatore. Con Maigret in Africa

Nel 1932 lo scrittore George Simenon si imbarca per l’Egitto e prosegue verso Sud. Incontrerà donne bellissime e connazionali sgradevoli, racconterà l’emozione dell’incontro con i pigmei e il rammarico per un souvenir impossibile da trasportare

«Scappo, faccio un viaggio in Africa, perché è un luogo che detesto d’istinto senza esserci mai stato e voglio vedere se ho ragione... Ho voglia di passare inosservato, di poter camminare in incognito. È tremendo non poter entrare in un bar o in un ristorante senza che la gente si dia di gomito e bisbigli: “Guarda, è Georges Simenon...”.»
A ventinove anni, nel 1932, lo scrittore si era imbarcato per un reportage che l’avrebbe portato dal Cairo ad Assuan, per poi sorvolare il deserto del Sudan, passare a Khartum e scendere nel Congo Belga fino a Leopoldville (l’odierna Kinshasa). Si era equipaggiato con abiti di stoffa leggerissima cuciti dal suo sarto. Non poteva guardarsi allo specchio con lo stretto casco coloniale che si era comprato a Marsiglia senza trovarsi patetico. Ma non poteva rinunciare a quell’accessorio da avventuriero. «Quel primo caschetto fu il passaporto, il visto d’ingresso per la mia vera vita!»
Viaggiando con la moglie su una vecchia Fiat aveva incontrato un continente ambiguo, devastato dalla colonizzazione. All’Hotel Cataract di Assuan, le pigre pale del ventilatore non bastavano a contrastare l’afa. Ma Simenon aveva scelto apposta l’estate. «Se si vuole conoscere il vero volto di un Paese, bisogna vederlo in tutta la sua intensità». Aveva constatato i disastri della colonizzazione e apprezzato gli indigeni, «l’uomo nudo», in cui aveva scoperto «una dignità umana che non ho incontrato da nessuna altra parte». Aveva fotografato centinaia di donne nude. Gli piacevano i capelli crespi e le labbra tumide delle nere. «Per conto mio, se dovessi indicare una Venere in grado di competere con quelle dell’arte greca, la andrei a cercare in Africa».
 

Simenon odiava i pregiudizi dei bianchi. «Per me le questioni razziali non sono un problema: le ignoro». E a loro volta i bianchi residenti, irritati dai suoi reportage, lo detestavano. Strada facendo aveva comprato una scimmietta. Avrebbe anche voluto portarsi in Francia una coppia di bambini neri, ma aveva dovuto rinunciare. Per incontrare i pigmei aveva atteso lunghe ore nella boscaglia carico di doni: tavolette di sale e sigarette. Loro li stavano osservando dalla cima degli alberi. Poi Simenon e la moglie avevano visto minuscoli esseri passare da una pianta all’altra tenendosi alle liane. «Uno spettacolo degno di Tarzan, sembrava un balletto». Poi tre indigeni col capo ornato di piume si erano avvicinati prudentemente, salvo gettarsi sul sale appena lo scrittore glielo aveva offerto. Intanto l’intera tribù era scesa dagli alberi e li aveva circondati. Poi erano iniziate le danze.
Sulla via del ritorno un magnifico leopardo aveva rasentato la loro auto senza degnarli di uno sguardo. Si erano portati via maschere, frecce, archi e pelli di leopardo. Ma l’unico souvenir cui Simenon teneva davvero – il Tiki, un totem di ebano che rappresentava il dio degli elefanti, mezzo scimmia e mezzo uomo, comprato in un villaggio – era troppo pesante.
Il romanziere non sapeva che si trattava di un oggetto puramente turistico.
In complesso il continente nero non l’aveva sedotto. «Ho lasciato l’Africa odiandola».