I mercanti (veri) di Venezia

Fra tanta paccottiglia resistono i maestri che coniugano antichi saperi e nuove conoscenze. E sanno regalare emozioni, bellezza e pezzi unici

Apri la porta sulla bellezza. Chiudi fuori il circo veneziano, con la sua paccottiglia di vetro a un euro, le borse cinesi di pelle irrigidita, le maschere della commedia goldoniana che parlano albanese. Fuori tutto il clamore di un mondo distratto che soffoca una città in vendita, dove un’abitazione su quattro è ormai a destinazione turistica. Una babele di lingue, una giostra di ciabatte, bottigliette di plastica e pizze sbocconcellate per strada. Trolley lamentosi trascinati senza pietà su selciati feriti, anziani che arrancano con carrellini semivuoti e cercano scampo alla corrente umana in piccoli rivoli laterali che si perdono nel nulla, piazzette orfane per pozzi negati e gatti assonnati. Magliette prive di buon senso, cappellini di paglia che invecchieranno negli armadi, ragazze con sneaker sgargianti che impugnano candidi ombrellini di pizzo per sentirsi damine per un giorno, commesse distratte per turisti maleducati e sciatti. Chiese consegnate a concerti vivaldiani di orchestre imparruccate, statue barocche che osservano perplesse una fiumana in marcia, un triangolo dei bermuda che inghiotte genti di tutti i continenti, una ritirata di Russia sulla tratta Santa Lucia-San Marco, scavalcando autostrade di gondole cariche di smartphone impegnati in una sfida all’ultima inquadratura con centinaia di fotocamere che mitragliano dall’alto dei ponti, fra improbabili case di Garibaldi e altrettanto improbabili note di O sole mio. Dodici miliardi di pali infissi nella sabbia a reggere il fragile equilibrio, anche psicologico, di una città dall’immagine usata e abusata, trasformata in una Disneyland della cultura, che sembra aver perduto la propria anima. E di un turismo mordi e fuggi che ha perso ogni rispetto.

Ma quando apri la porta di botteghe e laboratori artigiani il vortice si placa e il silenzio lascia risuonare tutta la grazia, l’armonia, la poesia e il garbo veneziani. Qui più che altrove non è sempre facile trovare l’eccellenza che caratterizza l’artigianato italiano, oggetti che della tradizione hanno non solo la forma ma anche il cuore. Ma anche in questa città di luce che sembra aver smarrito la propria matrice, dove troppi spesso non producono che quello che i turisti vogliono e si aspettano da Venezia, dove la richiesta del mercato è più forte dell’autenticità del luogo, dove l’oggetto artigianale si appiattisce nel souvenir, ci sono maestri che sanno rinnovare l’antico patto fra cuore e mente, fra sapere e saper fare e lasciano cantare il talento, la creatività, la musica della materia e il respiro del territorio. Solo così ritorna il sapore del far bene, il vero Made in Italy, sapiente mix di tradizione, abilità manuale, inventiva, originalità, gusto estetico e capacità di unire arte e progettazione, per far sì che la qualità diventi distinguibilità e unicità.

In questo nostro Paese smarrito e pietrificato, che dubita delle proprie capacità di inventiva e d’innovazione, più di altri gli artigiani hanno capito che l’equilibrio oggi è nell’instabilità. Forti della consapevolezza della tradizione e dei saperi locali, che nulla ha a che fare con un miope e asfittico localismo, non hanno paura del cambiamento, del nuovo. Si aprono al domani senza nulla perdere del passato. A cavallo fra tradizione e avanguardia, tra conoscenze millenarie e nuove tecnologie, non temono l’innovazione, le contaminazioni con il design, di cui non hanno più soggezione, dialogano con strumenti e soggetti diversi. Il futuro dell’Italia è artigiano: questo dimostrano le oltre 1.400mila imprese, al netto del comparto agricolo il 12,5% del valore aggiunto nazionale. Con 150 miliardi di euro di fatturato all’anno, il loro contributo economico vale 1/7 dell’occupazione e 1/8 del valore aggiunto della nostra economia.

La bottega artigiana non è fuori tempo massimo, vive pienamente nel nostro tempo. È perfettamente calata nel contemporaneo, di cui soddisfa il desiderio di oggetti originali, in grado di regalare emozione. Quella che Philippe Daverio definisce “l’intelligenza tattile dei polpastrelli” degli artigiani italiani è l’attitudine al gusto di chi è cresciuto nel bello, l’eredità culturale che rispecchia il fatto di detenere l’80 per cento del patrimonio artistico mondiale, quello stesso patrimonio che sostiene la nostra Grande Bellezza. Eccellenze non delocalizzabili, i mestieri d’arte, espressione del bello, del buono, dell’etico e del ben fatto, hanno inoltre un forte potere evocativo nei confronti del territorio di cui sono espressione e di cui esprimono l’identità.

 

Sono in grado di attrarre un turismo colto e con una buona capacità di spesa. E, per quei giovani che, come sosteneva l’oratore romano Quintiliano, non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere, rappresentano una scelta professionale all’insegna della libertà, un’opportunità per sperimentare e un ottimo sbocco occupazionale. Il più grande pericolo dell’artigiano è dimenticare il proprio ruolo di interprete, l’appiattimento, la perdita di memoria storica e l’incapacità di rinnovarsi. Allo stesso modo il più grande pericolo del mercato artigianale è la mancata tutela della qualità, del marchio d’origine. Questo è drammaticamente reale a Venezia, invasa ogni anno da quasi 27 milioni di visitatori alla caccia di ricordini da portare a casa.

Fra gli oggetti più gettonati da turisti per lo più mordi e fuggi, con un bassissimo indice di ritorno, le brutte copie delle preziose ed eleganti maschere, prodotte da poco più di 30 anni, quando la nomina di Maurizio Scaparro a direttore artistico fece del Carnevale veneziano un fenomeno mediatico. Resina contro cartapesta. Maschere di ogni foggia e prezzo che invadono negozi gestiti da italiani e bancarelle tenute da pachistani e indiani e che, in principio, non provenivano dalla Cina dei tarocchi. Soprattutto quelle a soggetto animale arrivavano, e continuano ad arrivare, dall’Albania dove, dopo la caduta delle torri gemelle di New York e il conseguente crollo del turismo americano nella Serenissima, per abbassare le spese un commerciante locale spostò la produzione, con tanto di maestri mascherai. La tecnica fu copiata, l’anima no. Il risultato però è stato devastante per maestri come Zago e Molin (Cannaregio, ponte Anconeta 2363, tel. 041.718979) o Ca’ Macana di Mario Belloni (autore delle maschere del film Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick). Artigiani di nome e di fatto che per restare a galla devono continuamente innovare il proprio repertorio e lottano per far passare il messaggio che la lavorazione è importante quanto il prodotto finito, che la bellezza non è solo esito ma anche processo. Sono due elementi inscindibili, come ben sanno anche Valentina Pala e lo scenografo e costumista di Sarmide Stefano Oliani, demiurghi del Casin dei nobili, segnalato come tappa imperdibile di un viaggio a Venezia dalla trasmissione australiana Things to do before die. Artigiani dalle cui mani nel laboratorio aperto su una corte con un minuscolo giardinetto prendono vita sontuose maschere realizzate anche su misura. Pezzi unici, trionfi barocchi d’oro o d’argento arricchiti da riproduzioni di fregi XIX secolo, impreziositi da materiali esclusivi come cristalli Swarowski, ma anche da piume di struzzo o gallo cedrone, perle, tessuto, cuoio, applicazioni in vetro.

La stessa voglia di distinguersi e di regalare bellezza ed emozione traspare nella passione che Dario Ustino e Jeanne Biagi di Charta mettono nel loro lavoro. Ustino, rilegatore prezioso di pezzi unici d’alta qualità tecnica, apprezzati soprattutto dal mercato anglosassone, viene dall’arte moderna ed è autore pentito di maschere: «Fui tra i primi a farle vent’anni fa, ma poi quando cominci a trovarle anche nelle tabaccherie vuol dire che devi smettere. Preferisco continuare a produrre pochi pezzi per non perdere l’anima. Hanno copiato le mie copertine, e questo in fondo è un buon segno. Ma non hanno idee e non sanno andare avanti, fare ricerca. Si fermano lì».
Si esce abbagliati dalle sete, sedotti dai broccati e coccolati dai velluti da quello scrigno prezioso che dal 1735 rende unica la tessitura artigianale Bevilacqua, iscritta nel Registro delle imprese storiche italiane. Tessuti di luce a fili d’oro, nappe, cuscini, pezze di damaschi e rasi ancora prodotti da 25 telai manuali, quelli della Scuola della Seta che Napoleone aveva chiuso per tutelare la produzione francese e che Luigi Bevilacqua e Giovanni Battista Gianoglio rilevarono nel 1875 aprendo la loro azienda. Una tradizione quella di sete, lampassi, tessuti operati, portata avanti a Venezia da nomi famosi come Rubelli, fondata nel 1835, con la sua collezione e archivio storico ospitata a palazzo Corner Spinelli, Fortuny, con il suo showroom alla Giudecca e, per la biancheria per la casa, i filati di Jesurum, che vide la luce nel 1870. Tessuti sontuosi che traducono in realtà i sogni dell’atelier Nicolao, il costumista di Farinelli e de Il mercante di Venezia, e tramortiscono con la loro opulenza nei costumi iperbolici di Antonia Sautter, ideatrice del Ballo del doge, l’appuntamento mondano per eccellenza del Carnevale veneziano.

Tessuti, cuoio e forme ricercate fra ieri e oggi anche da Segalin, piccolo laboratorio di calzoleria fondato nel 1932 e ora portato avanti con piglio deciso da Daniela Ghezza, autrice di scarpe eccentriche, su misura, uniche, tutte fibbie, punte allungate e tacchi a rocchetto. Arrivata come apprendista a 16 anni, Daniela ha imparato tutto dal Rolando Segalin, lentamente, con calma perché l’artigianalità è un mestiere slow, che richiede tempo. Non basta il talento né accumulare nozioni, bisogna interiorizzare l’insegnamento e metterlo in pratica quotidianamente, con determinazione e impegno. «Ci vuole umiltà, bisogna ascoltare ma anche rubare con gli occhi i gesti del maestro e farli propri». Quello che ha fatto Daniela, che a soli 24 anni ha coraggiosamente rilevato l’attività: «Faccio pezzi estrosi, ma amo scarpe vere cioè quelle fatte su misura. I più stupiti del mio lavoro sono gli orientali e i nordeuropei, che hanno perso molta manualità e non hanno mai visto una calzatura su misura».

Effetti spettacolari da Gualti, con i suoi gioielli contemporanei in resina e vetro ispirati alla natura, ma anche stole in seta, organza, gros grain, taffetà. Vere sculture da indossare, divertenti, surreali, ma anche lineari e rigorose, gli anelli e i bracciali del padovano Gualtiero Salbego sono il frutto di una ricerca continua di forme e di materiali che si traducono in filamenti flessibili e trasparenti di varie dimensioni. Autodidatta, da 18 anni Gualti regala alle donne piccole magie da indossare.
La stessa magia che si ritrova nella vetrina di Canestrelli, con i suoi specchi convessi, disegnati e realizzati da Stefano Coluccio che, nonostante una laurea in architettura, ha deciso di proseguire la strada artigianale iniziata dal nonno materno, intagliatore. Specchi, considerati portafortuna della casa e come tali chiamati anche occhi di strega, come quelli che tanto affascinano per le loro caratteristiche deformanti nel capolavoro di Jan van Eyck I coniugi Arnolfini o nell’Autoritratto del Parmigianino: «Non faccio pezzi su commissione, perché è l’oggetto che detta le regole. E non potrei garantire una resa precisa. Ogni specchio è un pezzo a sé e varia a seconda del materiale o dell’umidità».

Ma Venezia vuol dire soprattutto vetro. Dai capolavori di grandi maestri ai piccoli laboratori dove nascono fermacarte popolati di murrine, irregolari sezioni di canne policrome a millefiori, uno dei prodotti piu tipici delle vetrerie. Il maestro dei maestri però è sempre lui, Pino Signoretto di Murano, l’isola vicino a Venezia dove nel 1291, per tutelare la città dagli incendi e custodire il segreto della produzione, vennero spostate le fabbriche di vetro. Qui sono nati Barovier, Salviati, Cappellini, Seguso, che hanno portato il nome dell’arte vetraria veneziana in tutto il mondo. E sempre qui, dove si trova la straordinaria collezione del Museo del vetro di Palazzo Giustinian, opera il Consorzio Promovetro, nato nel 1985, che gestisce il marchio Vetro Artistico Murano, cui aderiscono circa 50 aziende, garanzia di provenienza per i consumatori e tutela per i produttori. A bottega a 12 anni in una vetreria con alcuni dei suoi sei fratelli, Pino ha lavorato con celebri artigiani come Alfredo Barbini e per artisti del calibro di Dalì, Pomodoro, Manzù. Più che un maestro vetraio è considerato un vero e proprio artista, un genio sregolato e volitivo dallo stile unico, capace di creare pezzi straordinari come un gigantesco cavallo di tre metri per quattro, ben 1.500 chili di vetro soffiato. Ha lavorato anche in Giappone, ma non ha mai smesso di studiare e ogni estate frequenta uno stage alla Pilckuck Glass Shool di Seattle perché: «Il vetro è come le donne, quando pensi di aver capito qualcosa ti accorgi che non hai capito niente».

Fotografie di Zoe Vincenti