Taiwan, tra il sacro e il profumo

Francesco LastrucciFrancesco LastrucciFrancesco LastrucciFrancesco LastrucciFrancesco LastrucciFrancesco LastrucciFrancesco Lastrucci

Ipermoderna, profondamente religiosa e vorace: l’isola di Formosa è un vero concentrato di antica cultura cinese, forse più della stessa Cina

Al mercato notturno di Ningxia, nel centro di Taipei, la fila davanti alle bancarelle è l’equivalente locale dei camion parcheggiati fuori dalle trattorie. «Se c’è tanta gente fidati. Vuol dire che questo è il migliore» spiegano. Sarà, però su questa coda ordinata aleggia una discreta puzza. E non è quella dell’olio che sfrigola sulle piastre dove vengono cotte omelette di ostriche. Non sono neanche i vapori che emergono dai mastelli di legno dove bollono ravioli piuttosto invitanti dai ripieni fantasiosi. E nemmeno i fumi di quei wok, neri e immensi, dove vengono saltati i mian xian, spaghetti di riso con aceto, coriandolo, cuori di bambù e interiora di maiale: una delizia. Questa è puzza, puzza vera. Pungente e intensa, ti entra nelle narici e ci rimane. Qualcosa a metà tra il cavolo dimenticato in frigo e i piedi di un maratoneta al traguardo. Inalando a pieni polmoni invade tutto il corpo e viene il dubbio che nonostante si sia all’aperto i vestiti li dovrai portare in lavanderia. La fila avanza. Gli avventori soddisfatti addentano voraci la causa di tanto olezzo: un pezzetto di chou doufu fritto e spolverato di spezie. In inglese stinky tofu: il tofu che puzza. Buono è buono, non c’è che dire. Ma l’odore è quello che è, pessimo. Del resto come sanno gli amanti dello zola, bontà e odore non sempre sono direttamente proporzionali. Questa è solo una delle decine di xiao chi, gli snack che si possono assaggiare negli onnipresenti mercati notturni di Taiwan, il luogo giusto dove entrare in contatto con la vita dei 23 milioni e mezzo di abitanti dell’isola di Formosa, la bella, come la battezzarono i Portoghesi nel XVI secolo.

Non visitarli più e più volte durante un soggiorno a Taiwan sarebbe come andare a Roma e perdersi il Colosseo. Non si può. Di mercati notturni come Ningxia ce ne sono decine in ogni città. Assomigliano a una rumorosa fiera paesana, con bancarelle dove si vendono vestiti di dubbio gusto e pessima fattura, cover e accessori per cellulari, pupazzi dell’onnipresente Hello Kitty e cianfrusaglie varie. Ai bordi qualcuno ha allestito sale giochi dove si spara ai palloncini per vincere un pupazzo, o si combatte in simultanea con un nemico virtuale sullo schermo di un computer. Ma queste sono semplici distrazioni, il cuore di ogni mercato notturno è il cibo. Piacevolmente confusionari e sufficientemente unti, ogni stand si specializza in un solo piatto: chi fa riso saltato e piccante, chi uova fritte, chi frutti di mare, qui particolarmente a buon mercato, e poi spaghetti in brodo con ogni tipo di accompagnamento, palline di riso glutinoso simili agli onigiri giapponesi, carne grigliata, spiedini di frutta caramellata. Si mangia seduti su sedie di plastica, illuminati da lampadine a led, con bacchette usa e getta e in barba a ogni etichetta, risucchiando rumorosamente quando è necessario, perché se non si emettono versi mentre si mangia vuol dire che non lo si sta gustando fino in fondo.

Sul perché i taiwanesi consumino la maggior parte dei loro pranzi e delle loro cene in posti come questo ci sono pareri contrastanti. Perché è molto buono e piuttosto economico è un buon punto ed è soprattutto vero: però anche la pizza è buona ed economica, ma non per questo passiamo 360 sere l’anno in pizzeria. Sociologicamente come spiegazione è debole. La giustificazione pare sia da ricercare nel fatto che tradizionalmente le case dei centri urbani erano piccole e spesso senza cucina (la densità a Taipei è di 9.600 abitanti per chilometro quadrato, a Singapore 7mila) per cui non si poteva far altro che mangiare fuori. Poiché non ci si trovava male, ecco che la necessità è diventata tradizione. Poi qui il meteo aiuta: siamo sul Tropico del Cancro, il freddo non si sa cosa sia.

L’altro luogo privilegiato dove osservare come si svolge la vita dei taiwanesi sono i templi: buddhisti, taoisti, confuciani. Un po’ l’uno e un po’ l’altro, senza troppa formalità. Sull’isola regna un’invidiabile forma di sincretismo religioso, sia nelle costruzioni che nelle orazioni. E se le statistiche ufficiali dicono che un terzo della popolazione è buddhista, un terzo taoista e gli altri non si sa, la realtà dice che i confini sono liquidi e ognuno sceglie a che santo votarsi a seconda delle esigenze. Così una statua di un Buddha seduto si può trovare in una sala, mentre nella successiva c’è la rappresentazione dei Tre Puri taoisti e di norma tutto è all’interno di un tempio dedicato a una divinità della mitologia cinese. Figure paragonabili ai nostri santi, cui ci si rivolge per ottenere qualcosa di molto, molto concreto. La più venerata a Taiwan è Mazu, dea dei mari che secondo tradizione era una ragazza normale poi ascesa al ruolo di divinità, cui oggi ci si rivolge per chiedere una benedizione per ogni cosa. Ma ci sono templi e relative divinità dove si va per trovare marito, altri cui ci si rivolge per avere una buona riuscita negli affari bruciando tonnellate di carta moneta e altri ancora dove, tra una genuflessione e un incenso acceso, si chiede una grazia particolare recitando una rapida preghiera. Confucio, che pure ha i suoi templi, è invece il preferito dagli studenti e da chiunque debba sostenere un esame che non sia del sangue. I confini tra fede e superstizione sono molto labili a queste latitudini: la soffusa spiritualità di un monastero buddhista tibetano, dove i monaci ripetono all’infinito i loro mantra è lontana come le montagne dell’Himalaya.

Del resto la tranquillità è quanto di più remoto ci sia da questi luoghi, che solitamente sono incastonati in angoli di città che sono cresciute tutto intorno come piante infestanti dentro un prato di margherite. Perché se c’è una cosa che colpisce la vista di chi visita Taiwan è la compresenza fianco a fianco di spazi di super modernità e oasi di tradizione, grattacieli luminosi e templi di legno, sale da thé dove si degusta goccia a goccia e karaoke dove si strepita, negozi di elettronica e bugigattoli di indovini. Così non di rado accade che il traffico incessante di auto e motorini venga bloccato perché sta passando un corteo con contorno di lancio di mortaretti e uomini vestiti da draghi, serpenti di cartapesta e lottatori con spade di cartone, trombe e tamburi.

Tutto questo è taiwan, il posto migliore dove vedere come forse potrebbe essere la Cina oggi se non ci fossero stati quasi 70 anni di comunismo maoista. Perché quel che viene a cercare a Taiwan chi è affascinato della cultura cinese, e non viene fin qui perché ha interesse nel settore dei semiconduttori, è proprio questo: un pezzetto di tradizione rimasto incastrato su quest’isola distante 160 chilometri dalla madrepatria, un’appendice insulare della grande Cina millenaria. Ma con i se e con i ma non si fa la storia. E ci si sbaglierebbe di grosso a cercare qualcosa di cristallizzato e non evoluto, come se questa fosse una riserva indiana dove la cultura cinese viene conservata sotto formalina. La cultura cinese qui è viva, in salute e in perenne evoluzione. Però, rispetto a Pechino, c’è un maggior ancoraggio al passato, un senso di continuità che non è artefatto e ricostruito, ma è pane quotidiano. La differenza di atmosfera che si respira nelle città taiwanesi rispetto a quella della Repubblica Popolare è la stessa che passa tra una Gucci originale e una comprata per strada. Qui le stratificazioni della storia, lì la cartapesta. «Taiwan è la vera Cina?» chiedi un po’ a tutti, quasi a cercar conferma della tua ipotesi. E se qualche anziano dice «che sì, questa e solo questa è la vera Cina, l’altra è una degenerazione che ha disumanizzato la società e distrutto cinque millenni di storia», vuol dire che probabilmente è un discendente diretto dei waisheng ren – letteralmente quelli da fuori provincia –, ovvero dei soldati e di coloro che scapparono dalla madrepatria dopo la guerra civile, che ancora assommano al 10 per cento della popolazione. Ma i giovani, ben più cosmopoliti e aperti dei loro compari aldilà dello stretto (con il loro passaporto viaggiare non è mai stato un problema) ti dicono con orgoglio che «No. Taiwan è Taiwan ed è tutta un’altra storia». Lo si capisce viaggiando, lo dicono i numeri: oggi il 53 per cento degli abitanti si definisce solo taiwanese, quelli che si considerano cinesi sono meno del cinque, nel 1991 erano il 46,4 per cento.

Però se vuoi vedere la storia, quella che si conserva nei musei, sei nel posto giusto, perché in un sobborgo della capitale si trova il National Palace Museum, una costruzione imponente che vorrebbe assomigliare alla Città Proibita senza riuscire ad avere minimamente l’altera maestosità. Però rispetto all’originale di Pechino possiede indubbiamente molti più tesori. È qui che si conserva il patrimonio artistico dei celesti imperatori, nazionalizzati nel 1912 alla fine del regno di Pu Yi. Dopo essere stati portati via dalla capitale nel 1931 per paura dell’invasione giapponese e aver peregrinato per la Cina intera fino al 1948, sono stati trasportati fino a Taiwan in attesa di tornare al loro posto, nel palazzo imperiale. Ma l’attesa si prolunga, dunque nel 1964 hanno aperto questo museo dove sono esposte circa 5mila opere di una collezione sterminata che comprende 696.112 pezzi (in maggioranza libri). Ogni giorno è invaso dai turisti della Repubblica popolare: con il loro modo di fare chiassoso e disordinato vengono per vedere un piccolo assaggio ben conservato e ben allestito della loro storia millenaria. Hanno modi prepotenti e bruschi, i taiwanesi li guardano con il fastidio con cui si guarderebbe un fratello maleducato. Sembra la storia di quei figli di genitori separati che non si vedono da quasi 70 anni: condividono gli stessi geni, ma solo quelli. Al massimo la passione per il cibo dei mercati notturni.

Foto di Francesco Lastrucci