di Vittorio Emiliani
In Lombardia, tra Pavia e Vigevano, si erge imperiosa l’azienda agricola di Ludovico Sforza detto il Moro. Dove lavorò anche, come ingegnere idraulico, il genio da Vinci
La prima volta che in auto arrivai da Pavia in vista di Vigevano e mi si parò davanti la mole rossa di cotto della cascina La Sforzesca mi venne spontaneo pensare: «Ecco il Rinascimento lombardo in tutta la sua opulenza». Qualcuno ha accostato questo splendido, quasi trionfale “monumento agricolo” all’urbinate Bramante che più tardi creerà per Ludovico Sforza detto il Moro il miracolo della piazza centrale e l’incombente poderoso Castello. Non ci siamo però con le date: l’imponente quadrangolare cascina viene prima, è già finita nel 1486 e non vuol essere soltanto una “delizia” di svago e di caccia. Ma anzitutto un’azienda agricola modello per i tempi. Essa si erge su una vasta pianura che ai tempi del Moro era spesso colpita da siccità, come tutte le terre strappate al bosco. Qui infatti fino al Mille e oltre si stendeva ancora la foresta planiziale che, assieme alle acque di valle e di fiume, copriva la pianura padana fino a Ravenna, alla pineta piantata dai Romani, alle residue distese di farnie, “la divina foresta spessa e viva”. Boschi infestati da branchi di lupi tanto che Berengario II ne ordinò la cattura poiché aggredivano quanti venivano da Torino alla sua corte di Pavia.
Alla Sforzesca – che a voi si presenta con le quattro torri angolari, i Colombaroni, dove abitavano padroni e ospiti, e con facciate esterne decorate in rosso cotto – lavora invece con certezza Leonardo, come ingegnere idraulico portando in questa zona assetata le acque di un Naviglio derivate dal Ticino e tirando a secco un “padule di gran profondità”.
La vastissima cascina agricola che ora voi vedete nasce in origine dalla volontà di Lodovico il Moro teso a fare di Vigevano una capitale e della Sforzesca una fattoria modello con vigne, coltivi, pascoli irrigati. Importa quindi dal Vicentino il gelso, quello dai frutti bianchi e l’altro dalle more nere. “Al muròn”, si dice ancora in lombardo e la tradizione orale vuole che Ludovico Maria Sforza si chiami per questo “il Moro” e non soltanto per il colorito scuro del volto. Coi gelsi si sviluppa la coltura e l’industria del baco (“al bigàt”) da seta e con la seta i raffinati arazzi di Vigevano: dodici di essi, su disegni del Bramantino, di abbagliante bellezza, si trovano al Castello Sforzesco di Milano. Ma accanto all’arte della seta vuole quella della lana e importa dalla Provenza e dalla Linguadoca greggi di pecore, ricoverandole e poi allevandole nella cascina chiamata ancor oggi la Pecorara. Instancabile il Moro diffonde su larga scala pure “lo modo di fare li risii” iniziato da pochi anni in Lomellina.
Certo qui nella buona stagione si praticava la caccia a cavallo nei campi e nei boschi prossimi alla “piacevole dimora” terminata “nell’anno di salute 1486” in una proprietà che constava di oltre 1.600 ettari. Vicino alle mura e alle rogge della Sforzesca pare di sentire ancora il latrare delle mute di cani da caccia, il galoppo dei cavalli eccitati dal suono dei corni, mentre sibilano le prime frecce.