di Stefano Brambilla | Foto di Stefano Brambilla
Nel 2016 si festeggia il secolo del National Park Service. Siamo andati in North Dakota per capire come grazie a Theodore Roosevelt nacque la “America’s best idea”
Qualcuno l’ha definita “America’s best idea”, la migliore idea che l’America abbia mai avuto. Parliamo forse di tecnologia, di premi Nobel o magari di cinema? No, per una volta stiamo parlando di ambiente: perché quello che gli americani hanno capito prima di tutti è che la conservazione della natura è una priorità inalienabile per il bene comune. Cent’anni fa, il 25 agosto 1916, nasceva il National Park Service, un’agenzia federale, dipendente dal Dipartimento dell’Interno, che da allora gestisce oltre 400 aree protette degli Stati Uniti d’America. Un atto rivoluzionario, quello firmato dal presidente Woodrow Wilson, che ebbe ripercussioni sul concetto di conservazione non solo in Nordamerica, ma in tutto il mondo: da quel giorno i governi del Pianeta iniziarono a pensare che l’istituzione di riserve per le generazioni presenti e future fosse imprescindibile al concetto di sviluppo e di benessere. Quel concetto, tuttavia, non nasceva con il presidente Wilson. Prima c’erano stati episodi isolati: già nel 1864 Lincoln aveva firmato un atto per proteggere la valle di Yosemite, in California; e nel 1872, con il presidente Grant, Yellowstone diventò il primo parco nazionale al mondo “as a public park and pleasuring ground for the benefit and enjoyment of the people” (“come parco pubblico e luogo di ricreazione per il vantaggio e il godimento della gente”). Fu però un altro presidente che fece capire alla gente l’importanza della conservazione dell’ambiente, facendo entrare in tutte le case le parole “parco nazionale”.
La ranger sprizza entusiasmo da tutti i pori. «Questa è la capanna originale di TR! Quella in cui lui abitò nel 1883! Guardate com’era piccola e semplice... un vero gioiello, vero?». Non c’è nessuno, davanti alla Maltese Cross Cabin, che non sappia di chi sta parlando la ranger. Sono tutti con gli occhi fuori dalle orbite, gli «amazing» e gli «awesome» si perdono tra le fronde dei pioppi, anche se la casetta di tronchi che abbiamo davanti è una banalissima casetta come ce ne potrebbero essere tante in tutte le campagne del mondo. Ma questa è la cabin di TR, e TR è già un eroe per tutta la Nazione, figuriamoci qui nel North Dakota, dove è il personaggio più illustre di tutti i tempi. D’altronde, chi è a tutt’oggi la persona più giovane a essere stata eletta presidente degli Stati Uniti? Quella il cui faccione fu scelto per affiancare, sul Monte Rushmore, i padri fondatori Washington, Lincoln e Jefferson? «Theodore Roosevelt è il mio eroe» mi sussurra un’arzilla ottuagenaria con il cappello da baseball e gli occhiali a specchio.«Ah, se avessimo ancora un presidente come lui…».
A Medora, un pugno di case, una “Cowboy hall of fame” e cento anime perse tra le sconfinate praterie del North Dakota, tutto parla di TR. È il posto giusto per capire qualcosa sul perché le parole conservazione e Roosevelt da più di cent’anni vanno a braccetto. «Vedi, Roosevelt era nato nel 1858 a Long Island, New York» mi racconta Eleanore, una volontaria che mi prende sottobraccio aprendomi le porte del Chateau de Mores (una grande casa appartenuta al fondatore di Medora, un marchese che chiamò così la città in onore della moglie). «Un’ottima famiglia, quella di Roosevelt, al giovane Teddy non mancava nulla, una buona università, i viaggi in Europa. Ma a quel tempo c’era già il mito del West... E come tutti i rampolli di buona famiglia anche Teddy voleva il suo bisonte». Lo chiama Teddy, Eleanore, come fosse un orsacchiotto. Io sorrido pensando a Robin Williams in Una notte al museo (ve lo ricordate, il tenero presidente Roosevelt a cavallo, segretamente innamorato dell’indiana Sacagawea?) ma devo concentrarmi perché lo sguardo di Eleanore è già a metà tra un rimprovero e una ramanzina. «Insomma, nel 1883 arriva nelle Badlands del North Dakota. Imbraccia il fucile, prende a servizio una guida e si mette a cercare un bisonte. Vaga tra i calanchi e i boschi, attraversa torrenti, si accampa sotto le stelle. Niente da fare, per giorni non lo trova. Non ci sono più bisonti. Lì scatta qualcosa». Capisco quello che mi sta dicendo Eleanore. I bisonti erano milioni, prima della conquista del West. Lewis e Clark, i famosi esploratori che risalirono il Missouri diretti a ovest, solo ottant’anni prima parlavano di mandrie che oscuravano il cielo con la polvere smossa dal loro passaggio. Il giovane TR, riflettendo sul suo trofeo finalmente trovato, cominciò a capire: di lì a poco l’America rischiava di vedere estinto il suo animale simbolo. Troppi cacciatori, troppi avventurieri, troppi capi di bestiame che toglievano spazio al grande tatanka, come gli indiani lakota chiamavano il bisonte.
Sul far della sera, saluto Eleanore e mi dirigo verso la south unit del Theodore Roosevelt National Park, alle porte di Medora. Fu Truman nel 1947 a dichiarare parco nazionale l’area in cui settant’anni prima aveva vissuto TR, dedicandola proprio al presidente. Mi fermo a osservare un’immensa “prairie dog town”, una città dei cani delle praterie, quei simpatici roditori simili a marmotte che al minimo segno di pericolo fanno un fischio e si catapultano tutti insieme nei buchi scavati nel terreno, sincronia perfetta per una comune sopravvivenza. Lontano, pascolano placidi una dozzina di bisonti. Non c’è nessuno in giro e l’aria profuma di salvia selvatica, di terra bagnata e di non so qualche altro aroma portato dalla brezza serale. Ripenso alle parole che mi ha detto Eleanore e che ho copiato sul mio taccuino: «Broken in form, bizarre in colors, desolate grim beauty, fascination on me». Ovviamente Theodore che parlava delle Badlands, le terre dei calanchi che spezzano le praterie dei Dakotas: forme rotte, colori bizzarri, triste bellezza desolata, fascino su TR, lui che dal 1883 al 1887 scelse di passare intere settimane a Medora, costruendo ranch, allevando bestiame, tramutandosi da impacciato bamboccio newyorkese – arrivato con un abito di Brooks Brothers e un fucile di Tiffany – in un vero uomo, rispettato da tutti e pronto per l’avventura politica. Mentre guido e i colori del tramonto accendono di rosso e arancione le bizzarre formazioni rocciose, ripenso a quanto questo paesaggio seppe curare l’animo devastato di Roosevelt, quando tornò nel North Dakota dopo che, il giorno di San Valentino del 1884, perse a distanza di ore la madre e la giovane sposa. «Furono giorni di gloria lavorativa e gioia di vivere» disse, ricordando quei periodi. Le Badlands salvarono Roosevelt. Cerco di immagazzinare nella testa e nei polmoni la stessa aria di libertà, quell’aria che arriva soltanto dai vasti spazi solitari.
A Dickinson, la prima città a est di Medora, incontro Sharon Kilzer, project manager del Theodore Roosevelt Center, che aggiunge un altro tassello alla storia. «Neanche quindici anni dopo gli anni di Medora, Roosevelt era vicepresidente degli Stati Uniti; e quando, nel 1901, William McKinley venne assassinato, si ritrovò a essere a soli 42 anni il 26° presidente» racconta. «Per due mandati, fino al 1909, TR riuscì a conquistarsi l’opinione pubblica con una politica conservatrice, ingrandendo la Marina, iniziando a costruire il canale di Panama, vincendo pure il Nobel per la pace per i suoi sforzi di mettere fine alla guerra russo-giapponese. Ma soprattutto fece della conservazione ambientale una priorità, istituendo cinque parchi nazionali, il primo monumento nazionale e una miriade di riserve e di rifugi per la fauna selvatica: la gente lo ricorda soprattutto per quello». Oggi Kilzer e i suoi colleghi hanno in mente un grande progetto: creare a Dickinson un centro dedicato a TR. «Roosevelt scrisse tantissimo, fu uno dei presidenti più prolifici quanto a libri, saggi, lettere. E dato che è uno dei pochi presidenti a non aver una biblioteca che raccoglie il suo lascito, vorremmo pensarci noi: per questo abbiamo iniziato con la digitalizzazione di tutto il materiale che lo riguarda» spiega. «Vorremmo proseguire con un museo, un centro di ricerca, un archivio. Da inaugurare magari a cent’anni dalla sua morte, nel 2019». Certo, Roosevelt non era nato nel North Dakota, qui passò – sommando le permanenze dei vari soggiorni – circa un anno della sua vita. Ma Kilzer mi ricorda che nel 1910 pronunciò le parole che ogni locale conosce: «Non sarei mai stato presidente se non fosse stato per le mie esperienze del North Dakota».
Passo una giornata nella North unit del Theodore Roosevelt National Park, dove incontro due turisti: il privilegio di avvistare cervi e aquile senza le folle di Yellowstone non ha prezzo. Vorrei andare anche a Elkhorn Ranch, dove Roosevelt costruì la sua seconda fattoria, anche se non ne rimane nulla, giusto per ammirare lo stesso paesaggio che vedeva lui dalla finestra di casa. Ma i ranger me lo sconsigliano: la strada è troppo accidentata a causa dei lavori per l’estrazione del petrolio, in North Dakota qualche anno fa hanno trovato grandi giacimenti e ora è tutto un viavai di ruspe e di truck. Sorge spontaneo il pensiero: meno male che qualcuno si inventò i parchi nazionali, altrimenti anche calanchi e bisonti sarebbero (ancora una volta) a rischio.
Alla sera mi convincono ad assistere a quella che capisco essere la vera attrazione di Medora, un esilarante musical che va in scena tra le badlands alla periferia del paese da cinquant’anni. A un certo punto suonano l’inno, entra a cavallo TR con la bandiera americana, tutti si mettono la mano sul cuore e cantano. Dio salvi l’America. E anche i suoi parchi nazionali.