di Stefano Brambilla
La seconda parte del nostro viaggio nella incontaminata wilderness dell’Ovest ci porta in Montana. Uno Stato in cui maestose montagne fanno da contraltare a praterie dov’è passata la leggendaria storia d’America
Lo chiamano il paese del grande cielo, il montana. The big sky country. E in effetti guidi su strade dritte che sembrano non aver fine, dove all’orizzonte ti sembra che il cielo si unisca al profilo della prateria e invece si moltiplica, si espande, quasi a proteggere perpetuamente la terra. Sei in cerca di storie di parchi, nel Montana, e ne trovi tre fra le mille che ti potrebbe regalare questo Stato enorme, il quarto per superficie d’America.
La prima data 1806. È il 25 luglio quando dalle parti del Pompey’s Pillar, un monolite roccioso che emerge dalla pianura e che si avvista a chilometri di distanza, arriva William Clark. «La vedi, la sua firma?» indica un gentile volontario. «È l’unico segno rimasto della mitica spedizione di Lewis e Clark!». Sulle prime, ti stupisce che gli americani abbiano creato un National Monument solo per proteggere un autografo inciso nella roccia. Ma poi, chiacchierando con i volontari e documentandoti nel ricco Visitor center, cominci a capire. Il capitano Meriwehter Lewis e il luogotenente William Clark non sono stati due esploratori qualunque: sono stati gli esploratori con la E maiuscola, coloro in cui l’America si è identificata, ha gioito, è diventata orgogliosa del suo grande territorio. Mandati da Jefferson a cercare un passaggio per il Pacifico, Lewis e Clark partirono da Pittsburgh nel 1803 e tornarono vittoriosi dopo tre anni di incredibili avventure, portando con sé diari dettagliatissimi, animali e piante mai viste, notizie su indiani e avventurieri, cartine dettagliate di zone inesplorate. Era l’inizio della conquista del West. A Pompey’s Pillar, che venne raggiunto nel viaggio di ritorno, Clark scrisse: «Ho scalato la roccia e dalla sua cima la vista spaziava in ogni direzione». Tranne qualche costruzione troppo moderna, il paesaggio non sembra essere cambiato molto da quei giorni. Mentre ammiri il fiume Yellowstone che scorre placido sotto al grande cielo del Montana, ripensi alle tracce di Lewis e Clark che hai trovato nel viaggio precedente, in North Dakota, dove a Fort Mandan avevano passato un terribile inverno. E non sai ancora che ne troverai altre a Great Falls, più a nord, dove un altro centro interpretativo, bellissimo, ti farà persino emozionare per il coraggio e la dedizione che The Corps of Discovery – il corpo di esplorazione, così fu chiamato il “team” – mise nella spedizione. Ti riprometti, in un viaggio futuro, di arrivare fino in Oregon, di trovare altre storie dei grandi esploratori che cambiarono l’America.
La seconda storia avviene settant’anni dopo la firma di clark sulla roccia e neanche troppo lontano. È una storia che ogni americano conosce a memoria: l’ha imparata fin da bambino, forse troppo presto, in quei momenti della vita in cui gli argomenti complessi sembrano semplici, in cui i buoni stanno da una parte e i cattivi dall’altra, non c’è grigio, solo bianco e nero. Dopo una giornata a Little Bighorn i grigi ti riempiono la testa e ti rendi conto a malapena quanto qualche brulla e spoglia collina bruciata dal sole possa trasmetterti così profondamente il senso della storia, lo scontro eterno tra civiltà, la fine di una cultura. Era il 25 giugno del 1876 quando il generale George Armstrong Custer decise di affrontare tremila guerrieri Sioux e Cheyenne in questo angolo insignificante del Montana: e quel giorno i fili del destino, delle singole personalità, della storia stessa tessero un insieme che nel tempo è diventato più denso di significati della somma di ogni parte. Custer morì da eroe insieme a tutto il 7° Cavalleria; gli indiani vinsero la più celebre delle loro battaglie. Ma presto ti rendi conto che nessuno vinse, quel giorno: perché quando la notizia arrivò sulla costa est, due settimane dopo, proprio mentre l’establishment americano stava festeggiando i cent’anni dall’indipendenza, fu l’inizio della fine per i pellerossa. Quei barbari avevano mutilato i morti, avevano preso i loro scalpi, avevano danzato per festeggiare! Bisognava fargliela pagare. «Parlavano due lingue diverse, c’è da chiedersi come facevano a firmare i trattati» commenta un ranger. «Danzando, gli indiani stavano piangendo i loro caduti; e la conquista dello scalpo era ovviamente un rituale da secoli. D’altronde, i nativi pensavano che i bianchi non fossero uomini d’onore: non combattevano mai faccia a faccia, ma con i fucili da lontano».
Ci sono molte cose che ti colpiscono, a Little Bighorn: le lapidi collocate sul terreno nei posti esatti dove morirono oltre 300 persone, bianche per i bianchi, rosse per gli indiani; le centinaia di libri che scandagliano ogni minuto della battaglia, in fila uno accanto all’altro nel Visitor center; i ranger che dieci volte al giorno raccontano il 25 giugno come se fosse una telecronaca sportiva, impassibili nella loro imparzialità. E anche il fatto che se non fosse stato istituito un National Monument probabilmente parte del racconto non sarebbe mai stato tramandato. Ma più di tutto ti colpisce la signora della Florida che alla fine del tour guidato da una donna Crow – Little Bighorn è all’interno della riserva indiana Crow – le getta le braccia al collo e scoppia singhiozzante in lacrime. In quel momento pensi di capire un po’ di più cosa vuol dire essere americani. Solo qualche nuvoletta bianca persa in un grande cielo blu passa sopra Little Bighorn.
L’ultima storia avviene più a nord, al confine con il Canada, dove le praterie del Montana si scontrano contro montagne innevate: a mano a mano che ti avvicini, provenendo da est, emergono dall’erba gialla, dietro alle fattorie, quasi come fossero un finto fondale da teatro, minacciose e nello stesso tempo bellissime. È una storia che unisce queste montagne, sacre da secoli ai nativi Piedi Neri, e la preveggenza, l’ingegno, la tenacia degli uomini che le soprannominarono “la corona del continente”. Perché già nel 1895, neanche vent’anni dopo il “last stand” di Custer, il ministro dell’Interno canadese concretizzò il suo sogno e istituì quello che oggi è il Waterton Lakes National Park, lasciando scritte le modeste parole «I posteri ci benediranno»; e quindici anni dopo, nel 1910, il presidente Taft seguì il suo esempio, proclamando il Glacier National Park, nella parte di territorio statunitense adiacente al Waterton. Non basta: nel 1932 i governi di Canada e Stati Uniti unirono i due parchi, facendoli diventare il primo International Peace Park, il parco della pace internazionale. «Non male come visione» ti sussurra una giovane ranger mentre controlla da lontano che l’orso affamato di mirtilli non si avvicini troppo ai turisti. «Ma Glacier è un parco speciale: lo sapevi che è uno dei pochi luoghi d’America dove sopravvivono tutti i predatori originari di queste montagne? E dove le piante delle foreste umide del Nordovest si mischiano con quelle delle praterie e delle montagne del nord? Pensa che dal Glacier nascono fiumi come il Columbia che vanno verso il Pacifico, altri come il Saskatchewan che si dirigono verso la baia di Hudson, altri ancora come il Missouri che finiscono nel golfo del Messico. Not bad!». Niente male. Pensavi di aver già capito perché il Glacier è un parco diverso da tutti gli altri, ma altre storie ti avrebbero colpito, nei giorni a seguire: quella degli incredibili lodge, tutti di legno, costruiti dalla Great Northern, la compagnia ferroviaria che dal 1910 al 1917 investì un milione e mezzo di dollari per rendere “turistico” il parco; e poi quella della Going-to-the-Sun Road, la strada che porta verso il sole, un capolavoro di ingegneria che nel 1932 superò per la prima volta le montagne, arrivando a 2025 metri di quota e di fatto decretando il tramonto della ferrovia. Soprattutto, le storie che avresti imparato camminando sui sentieri, passo dopo passo, panorama dopo panorama, attraversando foreste bruciate da incendi devastanti e arrivando a laghi color cobalto solcati da iceberg. È l’inizio di settembre, ma dalla coltre di nuvole basse arriva già la neve. Glacier si prepara all’inverno e tu ritorni a casa carico di storie e di cieli.