di Viviano Domenici
I nativi del Pacifico navigavano per miglia senza strumenti e carte solo sfruttando impercettibili movimenti del mare. Un sapere che gli scienziati cercano di ritrovare
«Il vecchio mondo creato dai nostri progenitori polinesiani è ormai morto... le grandi canoe capaci di traversare l’oceano son diventate polvere… La gloria dell’età della pietra ha lasciato la Polinesia. La vecchia rete è piena di buchi… Con quale rete nuova andremo a pescare?». Con queste parole intrise di sconforto l’etnologo Peter Buck, figlio di un neozelandese britannico e di una principessa maori, concludeva nel 1938 I Vichinghi d’Oriente in cui racconta la storia dei suoi antenati polinesiani che per primi colonizzarono l’intero oceano Pacifico, compiendo così la più grande impresa marinara della storia. Tutto ebbe inizio tra il 5000 e il 2500 avanti Cristo, quando popolazioni agricole provenienti dall’Asia sud-orientale furono “gettate in mare” da movimenti migratori che le spinsero nell’arcipelago indonesiano. Secondo Buck fu proprio durante la lunga permanenza in Indonesia che il salmastro penetrò nelle vene di queste genti di terraferma, trasformandole in lupi di mare pronti a salpare verso la Melanesia e poi ancora verso est, fino agli arcipelaghi delle Samoa e delle Tonga (1600-1200 a.C.). Da lì prese il via la seconda fase della grande avventura che in circa 2500 anni portò le grandi canoe a toccare tutte le isole del “triangolo polinesiano”.
Un viaggio plurisecolare caratterizzato da migliaia di tappe, da un’isola all’altra, senza bussole, sestanti e vere carte nautiche; solo seguendo impercettibili indizi nascosti nella forma delle nuvole, nel volo degli uccelli, nel movimento delle stelle, nel colore e nel sapore dell’acqua, nella direzione delle onde e nel rumore dell’oceano sotto la chiglia delle canoe. Un sottilissimo reticolo di percezioni che permetteva ai navigatori polinesiani di “vedere” un’isola ignota ben prima che comparisse all’orizzonte e di individuare la cosiddetta onda-pilota per raggiungerla. Ma d’improvviso tutto cambiò. L’arrivo dei navigatori europei, la violenza delle nuove religioni e i devastanti stili di vita introdotti ferirono a morte l’universo polinesiano, stuprato infine dagli esperimenti nucleari sui suoi atolli di corallo. Il terribile lampo scosse l’oceano e spezzò il filo che da millenni legava le giovani generazioni a quelle dei padri. Il millenario bagaglio di conoscenze s’inabissò come una nuova Atlantide. Recentemente, tre scienziati con nobili intenti (il fisico John Huth, l’oceanografo Gerbrant Van Vledder e l’antropologo Joseph Genz) hanno tentato di recuperare le conoscenze che i grandi capitani, i ri-Meto, trasmettevano ai loro apprendisti più bravi. Ma si sono accorti che ormai non c’erano più ri-Meto in circolazione, né allievi.
Hanno allora rintracciato Alson Kelen, un costruttore di canoe tradizionali che anni fa ascoltò i racconti di un aspirante ri-Meto che però non aveva completato il tirocinio. L’hanno fatto salire su una canoa all’antica e seguito con un’imbarcazione ultramoderna per vedere se partendo da Majuro, capitale delle Marshall, riusciva a raggiungere l’atollo di Aur (distante 135 chilometri) affidandosi solo all’impalpabile onda-pilota, senza l’aiuto del gps. Durante la navigazione lo hanno perso di vista a causa di una burrasca, ma lui ce l’ha fatta. Tutto questo l’ha raccontato il magazine del New York Times che ha dedicato un ampio spazio alla singolare ricerca della conoscenza perduta. Ora manca solo l’inevitabile relazione scientifica e l’inaugurazione di una scuola di «antica navigazione polinesiana». I profetici timori di Peter Buck rischiano di avverarsi.