Riandare a Canossa con Matilde

Paolo SimoncelliPaolo SimoncelliPaolo SimoncelliPaolo SimoncelliPaolo Simoncelli

Una «canusina» da generazioni risale sull’Appennino tosco-emiliano tra castelli diroccati e piccoli borghi, in quello che mille anni fa era il regno della grancontessa più potente d’Italia

Con la scusa di riaprire l’antica casa di famiglia, ho deciso di «andare a Canossa». No, non nel  senso figurato del termine, ma in quello letterale: la dimora infatti sorge sui colli reggiani, nel cuore di quelli che un tempo erano i possedimenti della grancontessa Matilde, da (ri)scoprire a ritmo slow. L’espressione «andare a Canossa» è linguisticamente un unicum: non esiste, infatti, nessun altro detto legato a un episodio storico che sia riuscito a entrare nell’uso comune di circa una trentina di idiomi. Significa umiliarsi e chiedere perdono. L’ha usato anche Bismarck in un celebre discorso davanti al parlamento tedesco nel 1872 e lo usava anche mio nonno, fiero delle sue origini canusine. La settecentesca casa-torre che la mia famiglia si tramanda da generazioni, infatti, sorge proprio là, nel cuore delle terre matildiche e il richiamo della grancontessa è irresistibile, tanto quanto la sua presenza è ancora viva da quelle parti.

Per seguirne le tracce non posso non partire proprio da Canossa, teatro del celebre episodio divenuto proverbiale. Nel gennaio del 1077 l’imperatore Enrico IV si presentò penitente sotto le mura del castello implorando il perdono di papa Gregorio VII (ospite di Matilde, fervente sostenitrice della Chiesa) che l’aveva scomunicato e che lo fece attendere tre giorni e tre notti scalzo nella neve prima di riceverlo.

 Benché oggi sia diroccato, il maniero incute lo stesso un certo timore, appollaiato com’è su uno sperone di roccia a strapiombo su una vallata di candidi calanchi che si stemperano nel verde di castagneti e campi infiniti. Lo storico Mario Bernabei è titolare del centro turistico Andare a Canossa e, soprattutto, depositario della memoria matildica: «L’incontro fra Gregorio VII ed Enrico IV rappresenta il primo momento di emancipazione della politica dalla religione e viceversa; Matilde ne è la fautrice: la storia ha minimizzato il suo ruolo relegandolo a quello di pia donna, ma lei è stata una grande protagonista» racconta. Mostrandomi il punto esatto dove il papa ricevette l’imperatore, Bernabei, che a tratti pare quasi innamorato di Matilde, continua: «È stata anche una femminista ante litteram: ha preso parte a numerose battaglie alla guida dei suoi eserciti, voleva un ruolo attivo all’interno della Chiesa – pare che il papa le avesse promesso di farle dire messa se lei avesse fondato cento chiese – e amministrava un territorio vastissimo che rivendicava per discendenza, nonostante nel vigente diritto germanico l’eredità si trasmettesse solo per via maschile. Anzi, proprio per questo motivo, nel 1088 sostenne la creazione della prima università al mondo, quella di Bologna, dove si stava cercando di rilanciare il diritto romano, che prevede la discendenza matriarcale».

Più conosco il personaggio di Matilde e più mi affascina la forza di questa donna, che parlava e scriveva quattro lingue – Carlo Magno, per esempio, non sapeva scrivere e firmava con una croce –, aveva idee moderne, una cultura incredibile e una vita ancora avvolta da leggende e misteri, come quello legato alla sua seconda sepoltura, quando il corpo fu trafugato da San Benedetto Po in provincia di Mantova e portato in Vaticano – tutt’ora è l’unica donna presente – nel monumento funebre realizzato dal Bernini.

Da Canossa lo sguardo abbraccia un territorio lunare (la tradizione vuole che i calanchi siano stati creati dal diavolo in persona) dominato da un’altra fortificazione importante nel sistema difensivo matildico, la fortezza di Rossena, una vera macchina da guerra aggrappata a rosseggianti rocce vulcaniche, che ha mantenuto intatto l’aspetto severo della roccaforte, impreziosita all’interno da muri affrescati e camini decorati. L’incastellamento voluto da Matilde era così fitto e compatto che mi basta allontanarmi di una manciata di chilometri per incontrare il castello dove, in occasione del grande incontro del 1077, alloggiò Enrico IV: Bianello.

 

Immerso in un’oasi naturalistica gestita dalla Lipu e protetto sui colli circostanti dai ruderi di altre tre rocche – da qui il nome della località, Quattro Castella – il maniero ha una storia di secoli da raccontare, fatta di feudatari e famiglie nobili, di papi e imperatori. Ma anche di episodi storici, come l’incoronazione di Matilde a vicaria imperiale d’Italia, e di grandi amori contrastati – assai romantico quello d’inizio Novecento dell’allora proprietario Carlo Bacigalupo per la cantante lirica Caterina Coppa – e di grandi lasciti, come gli splendidi affreschi seicenteschi che ornano i soffitti delle camere padronali con il tema della gelosia. E il castello di Bianello racconta anche di misteri da brivido, come quello dell’affresco quattrocentesco di Matilde staccato dal muro e scomparso, sostituito poi con una copia ottocentesca, o come la storia del misterioso fantasma. «Si tratta di una dama spesso vestita di verde non ancora identificata storicamente, che protegge le sorti del castello e che si è mostrata più volte nel corso dei secoli» racconta Danilo Morini, assessore alla Cultura e ai beni storici di Quattro Castella. E nel farlo mostra un muro con i segni delle pallottole sparate da uno degli ultimi proprietari durante un’apparizione notturna della dama e uno specchio che, immortalato in una fotografia, avrebbe restituito, nitida, la silhouette di una figura femminile. Ancora una manciata di chilometri e ritrovo Matilde, questa volta al castello di San Polo d’Enza – rimaneggiato e ingentilito nel Quattrocento –, scenario di uno storico scontro tra il suo esercito e quello dell’imperatore nel 1092.

Tornando verso Canossa quasi mi perdo nella tranquillità delle colline prima di approdare allo splendido borgo di Votigno, quanto di più inaspettato potessi trovare da queste parti: dove un tempo era stanziato il quartier generale delle truppe di Matilde, oggi sorge la Casa del Tibet.
Unica realtà del genere in Italia e prima in Europa, fondata dal dentista reggiano Stefano Dallari nel 1990 per diffondere e preservare la cultura tibetana. «Dopo un viaggio in Ladakh ha iniziato a prendere forma l’idea di creare proprio qui, dove Matilde è riuscita a scongiurare una guerra attraverso il dialogo tra papa e imperatore, un centro culturale tibetano». La magia che Stefano è riuscito a creare a Votigno è proprio nella sintesi tra la spiritualità buddista – che si respira nei simboli che decorano le case in pietra, negli oggetti sacri che si mescolano al tessuto urbanistico medievale, negli arredi interni – e le reminiscenze storiche che permeano il piccolo agglomerato. «L’idea è piaciuta così tanto al Dalai Lama che, nel 1999, ha voluto essere presente quando abbiamo inaugurato l’area museale per custodire oggetti rari e curiosi che ho raccolto durante i miei viaggi (Stefano ha avviato due studi dentistici a Dharamsala, attualmente autogestiti da dentisti locali, e si dedica ogni anno a diversi progetti umanitari); in quell’occasione Sua Santità ha ricevuto anche la cittadinanza onoraria da parte di 23 comuni matildici».

L’idea di avere qualche parentela con Matilde di Canossa e il Dalai Lama come concittadino seppur onorario mi mette una certa euforia, ma anche una certa fame: non posso non fermarmi allo storico ristorante Da Gianni, a Costaferrata. Non solo per gli ottimi tortelli e per la cucina casalinga ma, soprattutto, per ascoltare i racconti della proprietaria, la signora Anna. Il locale è infatti noto per aver visto la nascita delle Brigate Rosse: «Me li ricordo bene – racconta Anna – era l’estate del 1970, volevano sempre un tavolo appartato e parlavano fitto fitto. Dicevano di essere degli studenti venuti in campagna, ma avevamo capito che non lo erano. Solo dopo abbiamo saputo chi fossero davvero». Ed è proprio a quei tavoli che Renato Curcio, Prospero Gallinari, Alberto Franceschini e Tonino Loris Paroli hanno disegnato il simbolo con la stella diventato poi famoso e hanno posto le basi ideologiche e strategiche che avrebbero segnato gli anni di piombo.

Mi dirigo verso l’Appennino ed è ancora Matilde la protagonista del paesaggio, con le sue rocche difensive che occhieggiano minacciose dai colli più impervi. Ancora due meritano una visita. Sarzano, castello antichissimo del quale restano oggi parte della cinta muraria, del mastio e della cappella, visitato di recente anche dall’attore Christopher Lee che curiosamente è un discendente della famiglia Carandini, tra gli ultimi feudatari che si sono avvicendati tra le sue mura. E Carpineti: una delle fortezze più amate dalla contessa e tra le più inaccessibili e inespugnabili. «Sicuramente qui fu ospite papa Gregorio VII – spiega Fabrizio Carponi di Ideanatura, società locale di servizi al turismo – perché è documentato da bolle e lettere. Ma probabilmente anche Urbano II e Pasquale II vi soggiornarono: una pietra circolare ancora visibile nel pavimento della chiesetta del castello attesta, infatti, la presenza di personalità importanti del clero». A Carpineti, oltre ai resti imponenti del castello, tra i quali pare si aggiri il fantasma dell’Amorotto, un brigante cinquecentesco, sono bellissime anche la chiesa di S. Andrea, voluta da Matilde dopo la prima cerchia muraria e  la pieve di S. Vitale, raggiungibile con una passeggiata di mezz’ora nel verde dei boschi, un antico castrum romano e suggestivo esempio di arte romanico-bizantina. E a proposito di pievi, non si può non visitare, a una mezz’ora di strada tra castagneti e pascoli, quella fortificata di Toano, la cui costruzione è precedente all’anno Mille e miracolosamente intatta, adornata da preziosi capitelli con motivi geometrici e zoomorfi di pregevole fattura.

Sono ormai alle porte del parco nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano ma, soprattutto, sono all’interno della neonata Riserva dell’uomo e della biosfera Unesco – un’area grande dieci volte il parco – inaugurata nel giugno 2015 e comprendente oltre 223mila ettari a cavallo tra Emilia-Romagna e Toscana. «Si tratta di un sistema naturale di colline e montagne con una solida tradizione agricola, che va dai castagneti di origine matildica al paesaggio culturale del Parmigiano Reggiano, includendo anche la rete di castelli e pievi. L’Unesco ha scelto questo territorio per il rapporto speciale che l’uomo ha saputo creare con l’ambiente, valorizzando e proteggendo sia la biodiversità sia le tradizioni storiche» spiega Fausto Giovanelli, presidente del Parco nazionale.

Qui il paesaggio è dominato dalla mole dell’enigmatica Pietra di Bismantova, una fortezza naturale sulla cui sommità sorgeva anticamente un castello, una montagna considerata sacra già in epoca etrusca e celtica per la forma che la fa assomigliare a un gigantesco altare. È citata persino da Dante nel IV canto del Purgatorio e, nonostante l’aspetto impervio, la salita fino alla sommità si rivela una piacevole passeggiata e il panorama a trecentosessanta gradi che regala è di quelli che mozzano davvero il fiato. Il mio pensiero non può che correre ancora a Matilde: chissà quante volte avrà contemplato da quassù i suoi possedimenti.