di Vincenzo Ceniti | Fotografie di Sergio Galeotti
La città che ha ospitato il Conclave più lungo della storia della Chiesa (oltre due anni) fu luogo di ristoro per i pellegrini medievali. Oggi lo è per i turisti in cerca di rare atmosfere e piacevoli sorprese
Una signora di provincia seducente e stagionata, di sana e robusta costituzione medievale. In buona sostanza se ne raccomanda l’“uso” senza effetti indesiderati, poiché non tradisce mai le aspettative e l’immaginario collettivo, peraltro sostenuti dai racconti di chi già la conosce, dalle ripetute location televisive e dalla letteratura di viaggio di ieri e di oggi. Il tom tom ci segnala che siamo a Viterbo, nell’Alto Lazio, accolti da un robusto abbraccio di pietra che avvolge il cuore pulsante del centro storico, desideroso di mettere subito in chiaro le sue origini nobili e cavalleresche, peraltro consacrate da un paio di postazioni d’eccellenza, come il colle del Duomo e il quartiere di S. Pellegrino. Sul primo è successo di tutto. Prima con gli Etruschi e i Romani, poi con i Longobardi, in seguito con gli imperiali e i pontefici. Gustiamoci intanto la severa facciata del palazzo dei Papi (XIII sec.) che sul fianco destro sfuma nei ricami pietrificati che evocano le trine veneziane di una loggetta di rara eleganza. Orson Welles per il suo Otello del 1952 l’utilizzò per un affaccio sul mare della Laguna e più recentemente il regista di fiction Giorgio Capitani l’ha immortalata come fondale per l’arcinota caserma dei Carabinieri del maresciallo televisivo Rocca. Il tetto a capriate di quel palazzo papale, che pesantemente s’appoggia sull’edificio, fu scoperchiato dai viterbesi nel 1270 per costringere il Sacro Collegio, occasionalmente riunito a Viterbo dopo la morte di Clemente IV, ad affrettare l’elezione del nuovo pontefice. Così almeno dice la tradizione. In precedenza i cardinali vennero addirittura rinchiusi nel palazzo “cum clave” per accelerare la fumata bianca. Da quel conclave, il più lungo della storia della Chiesa (1006 giorni, dal 1268 al 1271), uscirà eletto Tebaldo Visconti (Gregorio X). La Cattedrale che le sta accanto conserva, senza vistose contaminazioni a parte la facciata, le primitive architetture, come l’impianto basilicale e l’alto campanile zebrato.
L’altra postazione, separata dal colle da un ponte millenario, conosciuta come il quartiere medievale di S. Pellegrino, presenta uno scenario tanto irreale quanto esclusivo, di chiaroscuri, ombre, pozzi di luce, balconi fioriti, negozi di artigianato e antiquariato, scale esterne e irte che qui chiamano “proferli”, finestre a più leggiadrie, archi mozzati… Siamo nel cuore storico della città, il cui nome evoca il passaggio di pellegrini lungo la via Francigena diretti a Roma e, quindi, taverne, osti senza scrupoli, monaci in penitenza, baldracche, regnanti, artisti, papi, spade, mariuoli, risse, morti ammazzati. Ogni angolo, ogni piazzetta, ogni vicolo ne sono stati testimoni. E che dire delle fontane? Non credo che ci sia in Italia un centro storico a vantarne così tante. La più bella è chiamata “Grande” e ostenta con orgoglio l’anno della sua ricostruzione (1279) vergato sul bordo della grande vasca quadrilobata. Anche le più povere datano medioevo e s’ammantano dell’essenziale: vasca circolare, fuso centrale – coronato da una pigna – e teste di leone, tra ornati di palme, che sputano zampilli d’acqua (il leone e la palma sono il simbolo della città). Altre, più “moderne” richiamano le linee rinascimentali-barocche di scuola locale, come quella del cortile di palazzo dei Priori che con un colpo di genio è stata collocata proprio lì, per impallare la cupola della Trinità disegnata sullo sfondo. Tra le chiese ce n’è una (S. Silvestro del X sec.) che si guadagnò una triste fama nel 1271, quando al suo interno vi venne pugnalato presso l’altare, accanto al prete che celebrava la messa, il giovane Enrico di Cornovaglia, nipote del re d’Inghilterra. L’assassino, Guido di Montfort, sconta per questo delitto l’Inferno di Dante nel girone dei violenti. Altre chiese fanno pure notizia per la loro età. Su tutte S. Sisto e S. Maria Nuova: si parla addirittura del IX-X sec. Tra le più “recenti” (XIX secolo) c’è quella di S. Rosa, molte volte ricostruita nei secoli, che custodisce in un’urna di vetro seicentesca, come una principessa delle favole, il corpo “addormentato” di Rosa, la giovane patrona di Viterbo.
A tutto relax. Lo si può ottenere seduti a un tavolo di trattoria davanti a zuppe, lombrichelli, padellaccia, coratella, agnello alla cacciatora, cinghiale a bujone, porcini al forno con patate, caciotte e salumi. Oppure immersi pigramente in una delle piscine con acqua calda termale alle porte della città. Alcune sono semplici pozze en plein air dove ci si bagna senza eccessive formalità. Altre “professionali”, come quella monumentale con acqua a 35 gradi, che si trova all’interno delle Terme dei Papi. Da non perdere i dintorni. Su tutti il santuario della Madonna della Quercia, del XV-XVI secolo: fu un atto d’amore e di ringraziamento dei viterbesi per i tanti miracoli della Vergine in tempi di pestilenze e carestie. Ma anche la contemporanea Villa Lante di Bagnaia i cui giardini all’italiana furono imitati da André Le Nôtre per quelli di Versailles. Una festa unica. Il 3 settembre di ogni anno la città va in tilt. È di scena la Macchina di Santa Rosa, un campanile infuocato, illuminato da mille lumi, pesante 5 tonnellate e alto una trentina di metri, che supera i tetti delle case del centro storico. La sera, quando è buio e tutto s’acquieta, un centinaio di baldi giovanotti, vestiti di bianco con la fascia rossa al ventre, che a Viterbo chiamano “facchini”, se la mettono sulle spalle per trasportarla a passo svelto da un capo all’altro della città tra la folla. È uno spettacolo unico al mondo che si ripete quanto meno dal XV secolo, anche se la prima documentazione risale alla fine del Seicento, quando la “Macchina” non era che un modesto baldacchino con l’immagine della Santa. La visita di Viterbo non può prescindere da questo appuntamento. L’esperienza è davvero indimenticabile.