di Marzio G. Mian | Foto di Nanni Fontana
Il Passaggio a Nordovest, sullo stretto di Bering, come una volta obiettivo della corsa all’oro ma anche protagonista del “Grande Gioco del XXI secolo” tra Russia, Cina e Usa. È la nuova destinazione del turismo artico in grande espansione
Lo dice bene il sindaco della città di nome Richard Beneville, ex ballerino di Broadway, anche lui nella vasta schiera di coloro che in questo lembo estremo del Nordovest Alaska hanno cercato l’ultimissima frontiera esistenziale, spesso per lasciarsi alle spalle una civiltà troppo virtuale e forse più pericolosa dell’orso polare: «La vera risorsa di questa regione più che il petrolio, l’oro o il salmone… è la geografia!». Già gli eskimo delle due sponde qui sullo stretto di Bering lo chiamavano la “cruna dell’ago del mondo”. Una Geografia che sta facendo la Storia. Fino a pochi anni fa l’Artico era ritenuto marginale rispetto alle vicende umane che contano, una specie di altro pianeta dietro casa, sfogo per amanti della Natura nuda e cruda, cercatori di record di sopravvivenza e location di spettacolari set per la pubblicità patinata. Ora, a causa del cambiamento climatico e dello scioglimento dei ghiacci, è al centro di quello che viene chiamato il Grande Gioco del XXI secolo: stavolta la scacchiera non è quella del deserto mesopotamico, ma l’oceano Artico, oggetto delle mire delle grandi potenze perché contiene il 30 per cento delle riserve mondiali di petrolio e gas, il 35 per cento degli stock di pesce, e rende praticabili le leggendarie vie marittime inseguite per secoli da tanti esploratori: il passaggio a Nordest lungo la costa della Russia artica e quello a Nordovest lungo l’Alaska e gli arcipelaghi canadesi. Solo lo scorso anno si è “liberata” dai ghiacci una fetta d’oceano grande come la California; e nel mondo globalizzato, dove il 90 per cento delle merci viaggia via container sugli oceani, dimezzare i tempi (e il carburante) tra Asia e Occidente è ambizione di molti, soprattutto della Cina, primo player nella navigazione commerciale. Anche il turismo nella regione artica, secondo un recente studio della Pew Foundation di Filadelfia è cresciuto negli ultimi cinque anni di quasi il 50 per cento. I grandi fondi d’investimento come il Guggenheim Fund giudicano che le infrastrutture nell’Artico, porti, aeroporti, cablaggi intercontinentali, alberghi e resort, saranno il grande business del secolo. È l’altra faccia del cambiamento climatico, quella delle immense, epocali opportunità, la cosiddetta Polar Rush, la corsa alla conquista delle ricchezze polari che evoca l’epopea della Gold Rush, quella (indubbiamente più romantica) immortalata da Jack London, proprio qui in Alaska, nel Klondike. Un mondo nuovo insomma che si apre e che viene poco raccontato, e comunque quasi mai sul campo. In quasi un decennio di reportage oltre il Circolo polare artico ho riscontrato che i più informati e consapevoli di questi inediti scenari sono i viaggiatori, spesso italiani, spinti dalla fascinazione per la wilderness più estrema, ma anche attirati dall’emozione di scoprire una fetta di pianeta dalla bellezza potente, rimasta finora fuori dai riflettori della storia dell’uomo e della civiltà. L’ultima Thule cantata da Virgilio non è più il paradigma dell’ignoto, ma, come dice il visionario Richard Beneville, un patrimonio geografico.
Da tempo volevo arrivare a Nome, avamposto del continente sull’Artico. Perché è il punto migliore da dove poter osservare e raccontare la “cruna dell’ago”, lo stretto di Bering, verificare sul campo la forza strategica di questo pertugio marittimo, dove Stati Uniti e Russia si controllano come ai tempi della Guerra Fredda impiegando sommergibili e aerei spia che volano a bassa quota. Ma questa regione rappresenta soprattutto un capitolo straordinario nella storia delle esplorazioni italiane al Polo. Un viaggio organizzato insieme alla Tecnitravel di Milano e al suo fondatore, Guido Cassano, classe 1929, che da vero pioniere porta viaggiatori italiani in Alaska da oltre 20 anni (vedi box, pag. 51) ha voluto inaugurare, con me e con il fotografo Nanni Fontana, questo percorso nel selvaggio Nordovest in occasione dei novant’anni dell’arrivo qui del Norge, la spedizione transpolare di Roald Amundsen e Umberto Nobile. Il 13 maggio del 1926 il dirigibile italiano, pilotato da Nobile e la sua squadra, riuscì nell’impresa di attraversare per la prima volta il Polo e di scoprire ampie regioni di territori ghiacciati dove invece s’ipotizzava si estendesse la terraferma. Il capo della spedizione era il grande ed egocentrico esploratore norvegese Amundsen, che aveva già per primo aperto il passaggio a Nordovest navigando dalla baia di Baffin allo stretto di Bering nel 1905, terminando proprio qui a Nome l’impresa a bordo del vascello Gjøa. Il mondo rimase con il fiato sospeso per giorni, il Norge non dava segnali di vita, poi l’annuncio captato via radio a Nome: il Polo era stato sorvolato. Nobile aveva fatto gettare sul punto le tre bandiere della spedizione, norvegese, italiana e americana (il finanziatore era un magnate di New York). A Nome cominciarono a organizzare l’accoglienza, perché la cittadina, che allora aveva solo 25 anni di vita, doveva essere l’approdo finale del dirigibile, una squadra di sette tecnici italiani aveva eretto il pilone e costruito l’hangar. «Allora era come scoprire un nuovo pianeta, il Polo era sconosciuto quasi quanto la Luna; e fa impressione, novant’anni dopo, assistere invece alla corsa per lo sfruttamento dell’Artico… Nobile fu accolto come un nuovo Cristoforo Colombo» racconta Diana Haecker, direttrice del The Nome Nugget, la pepita di Nome, il quotidiano più antico dell’Alaska, nato appunto in piena corsa all’oro. Sfogliando le pagine di 90 anni fa scopriamo che la parrocchia di St. Joseph offrì un ricevimento e un ballo in onore degli aviatori cattolici italiani al Golden Gate Hotel. Diana racconta del grande incendio del ’34 scatenato da un’esplosione negli scantinati del Golden Gate dove distillavano whiskey di frodo e che mandò in fumo mezza Main Street. Allora, praticamente assiepate e accampate lungo la riva, vivevano ventimila persone, attirate da uno dei maggiori giacimenti d’oro al mondo. C’erano 75 saloon, due chiese, tre bordelli. Come oggi, Nome era un centro isolato, raggiungibile solo via mare o via aerea. Circolava così tanta ricchezza che in occasione del terremoto di San Francisco nel 1906 Nome, in rapporto alla sua popolazione, spedì più assegni che ogni altra città americana.
Oggi vivono qui 3mila e 500 persone, il 60 per cento eschimesi, e il sindaco Richard, che è anche leggendaria guida turistica, suggestivo raccontatore di storie a cavallo tra le vestigia dell’epoca pionieristica e la Nome attuale, ci fa assistere al rito della caccia e della macellazione del tricheco, consentita solo ai nativi perché, come quella della balena e della foca, è intrinsecamente legata alla loro identità. Quindi incontriamo i ragazzi che arrivano da ogni parte del Paese in cerca di fortuna, perché Nome sta vivendo una nuova stagione di gloria, grazie all’oro quotato 1.200 dollari l’oncia e alla popolare serie reality Bering Sea Gold di Discovery Channel. «La differenza tra i cercatori di allora e quelli di oggi sta solo nel cellulare» assicura Richard: la vita è ugualmente dura e al limite della follia. La nuova frontiera mantiene il suo fascino intatto, i ragazzi arrivano con una sacca, spadellano nel fango e in riva all’oceano per qualche mese e ripartono con un gruzzolo luccicante che spesso permette loro di pagarsi l’università. Jessie, 25 anni, mantiene una tribù di nove fratelli, si è inventato la ricerca dell’oro anche d’inverno sotto il pack, sul fondo dell’oceano con una tuta artigianale da palombaro. Ha rischiato più volte di rimanerci. Al Polar Cafe sulla Front, Jessie e la banda se la raccontano al cosiddetto bullshit table, il tavolo delle spacconate tra cercatori d’oro; all’Aurora Inn, invece, hotel di gran fascino da Alaska estrema, si danno appuntamento i business men che investono nel nuovo porto da un miliardo di dollari, ma anche i birdwatcher che da maggio in poi arrivano da tutto il mondo per osservare oltre 180 specie di uccelli che vengono a nidificare nella tundra e nella macchia artica. L’Aurora è anche quartier generale della celebre Iditarod Trail, la mille miglia delle 75 slitte trainate dai cani, che ogni prima domenica di marzo partono da Anchorage e attraversano le montagne per arrivare a Nome.
Il tratto finale della trasvolata del Norge fu il più drammatico, una bufera di neve e ghiaccio e venti fortissimi trascinarono l’aeronave verso Ovest sulla banchisa continentale. Intravidero un pugno di abitazioni, era Teller, villaggio di eschimesi a un centinaio di miglia da Nome. La manovra abile e coraggiosa di Nobile, reduce da 53 ore consecutive di veglia ai comandi del Norge, rimane il momento più alto di una carriera finita con un’altra bufera, stavolta di polemiche, suscitate dalla controversa disfatta del dirigibile Italia due anni dopo: il comandante napoletano venne accusato di aver abbandonato i compagni nella “Tenda Rossa”; Amundsen perse la vita per andare in soccorso dell’Italia, forse con l’intenzione di dare una lezione a Nobile il quale, secondo i norvegesi, si era preso troppi meriti sull’impresa del Norge. Gli eschimesi si videro piombare addosso il dirigibile, lo chiamarono la Grande Foca Volante; in assenza del pilone furono loro ad ancorare l’aeronave nella tormenta. Sorvoliamo Teller con un piccolo velivolo della Bering Airlines, la compagnia che da un paio d’anni – nonostante le tensioni Usa-Russia – opera emozionanti escursioni oltreconfine. La giornata è splendida, possiamo osservare la banchisa che si estende nel mare di Bering, il corridoio d’acqua che separa il pack della sponda russa, distante solo 90 chilometri. È qui che transitano i grandi portacontainer che dimezzano la tratta rispetto alle tradizionali rotte via Suez o via Panama. Ma lo stretto è anche attraversato da ogni genere di navi da crociera, provenienti dalla California, così come dall’Asia, destinate a costeggiare le sponde dell’Artico russo oppure a inoltrarsi nel mare di Ciukci, nel Nord dell’Alaska, per osservare balene e orche. In agosto è appena transitata la Crystal Serenity, nave da crociera di quasi 300 metri e con a bordo 1.500 passeggeri che ha circumnavigato da Seward, Alaska, a New York, compiendo il passaggio a Nordovest. I biglietti sono andati esauriti in un mese nel 2014 quando è stata annunciata l’impresa, e i passeggeri hanno dovuto garantire la disponibilità di 50mila dollari per eventuali interventi di salvataggio. “Un viaggio titanico” l’ha definito il quotidiano inglese Guardian, evocando i rischi di un incidente dalla portata catastrofica. Ma molti ritengono che la Crystal abbia segnato l’inizio di una nuova era nel turismo crocieristico. «L’Artico diventerà una specie di Mediterraneo sul tetto del mondo» dice Leon Boardway, responsabile del Visitor Center di Nome. «L’estensione è quasi uguale, e l’aurora boreale lo rende altrettanto romantico».