di Isabella Brega | Foto di Isabella Brega
Hiva Oa, la maggiore delle sei isole abitate dell’arcipelago che dista 1.500 chilometri da Tahiti, celebra con un festival le tradizioni millenarie e l’orgoglio del popolo che a remi e su zattere ha colonizzato gli oceani
Tutta colpa di Melville. Se le Marchesi sono divenute nell’immaginario collettivo l’ultimo Eden, se queste schegge vulcaniche malate di solitudine gettate nel Pacifico si sono trasformate nell’incontaminato paradiso dei sensi si deve alle pagine dal francese che diede fiato al mito settecentesco del buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau, nato dalle bucoliche descrizioni della Polinesia di Louis-Antoine de Bouganville e di James Cook. Arrivato nel 1842 a Nuku Hiva, l’americano Herman Melville disertò dalla baleniera dove era imbarcato per rifugiarsi nell’entroterra, dove per otto settimane visse con una tribù di feroci cannibali trasfigurati nelle pagine del suo Taipi (1846) in “nobili selvaggi” e la valle di Tapivai nel paese della cuccagna. Il mito era nato, l’utopia covava. Le isole dove tutto era tabù erano divenute il simbolo dell’amore e dell’innocenza primigenia, dove la libertà è tatuata sulla pelle degli uomini, la sensualità esaltata dalle movenze delle donne, la forza espressa da una natura esuberante, la sacralità raggelata negli antichi idoli di pietra, la purezza sottolineata dalla luce adamantina che imbeve ogni angolo, ogni respiro.
Tutta colpa di Melville e di Paul Gauguin, il pittore che a quelle pagine ha dato forma e colore. L’artista che per inseguire il suo desiderio di libertà e di semplicità, per cercare la linea primitiva, il colore impastato di luce, rinunciò alla sua vita parigina e dimenticò di essere marito e padre. Quella fuga in cerca di riscatto e di rinascita farà dell’ex agente di cambio un avventuriero, un paria e un genio: il pittore del mito dei mari del Sud. Quell’avventura matta e disperata legherà l’uomo alla rincorsa dei propri sogni e di un altro da sé alle isole del Pacifico e darà vita a un Paese più pittorico che reale, che ancora condiziona il mondo.
Marchesi, magia di un nome. Luogo di pellegrinaggio sulle orme degli scrittori Melville, Robert L. Stevenson, Jack London e Pierre Loti, ma anche meta di sognatori e spiriti inquieti. Fonte di ispirazione per giovani affamati di vita e di altrove, in fuga da se stessi e dal mondo, hanno attratto generazioni di intellettuali che si sono inventati una nuova vita alla Robinson Crusoe, luogo di innamoramenti destinati a durare un attimo o l’eternità. Ultimo rifugio dell’anima per sconfitti come il cantautore belga Jacques Brel, arrivato qui nel 1975 a 45 anni minato da un tumore ai polmoni, o il tormentato Paul Gauguin, prigioniero della pittura e ossessionato dal colore. Le isole dei cannibali, le isole delle sensuali vahine: l’amore e l’orrore, la purezza e il peccato, la gioia e la solitudine. Marchesi, un mito che è fortuna e condanna insieme, ma anche responsabilità di custodire l’ultima grande illusione, di incarnare i sogni di assoluto del mondo. Perché abbiamo bisogno di bellezza per vivere nelle nostre metropoli senza anima, abbiamo bisogno del conforto dei grandi spazi per sopportare il recinto di condomini e appartamenti, della purezza per illuderci di vincere la morte dell’anima. Difficile però reggere tanta indomita, fastosa, bellezza, tanta forza di linee e di colore. Il mito le ha banalizzate, rischiando di farle cadere nella trappola dello stereotipo, trasformandole in una rassicurante cartolina.
Bulimici come siamo di novità ed emozioni, bombardati di immagini e di selfie rischiamo di cadere nel fast food dei viaggi, incursioni mordi e fuggi in un mondo uniforme e uniformato dal turismo. Superficiale contatto con il nuovo mediato da guide: pochi rischi ma anche poca poesia. Eppure rincorriamo l’utopia della scoperta, dell’ultima frontiera, del luogo mai sfiorato dalla specie cui non vogliamo appartenere, quella dei turisti, aspirando di fatto a essere tutti viaggiatori. Con la paura che, per quanto lontano andremo, troveremo sempre un tour operator ad aspettarci. Sempre con il sospetto del finto, del fatto a nostro uso e consumo. Con la ricerca della capannuccia di paglia e degli indigeni in pareo, pena il sentirsi truffati, privati del nostro sogno, ma con la pretesa dell’aria condizionata e del frigobar pieno.
Ma qui davvero poco è cambiato da quando, il 16 settembre 1901, proveniente da Tahiti, sulla spiaggia di Hiva Oa dove le onde si infrangono sfrigolando contro i ciotoli neri e la cortina delle palme freme nell’aria sfibrata dal caldo, insieme a un armonium, suppellettili e rotoli di tela sbarca Paul Gauguin, pronto a dare la caccia alle ragazze della missione cattolica, a difendere i nativi, seminare figli e litigare con gli europei. A qualche centinaia di metri dalla riva, in fondo a una valle ricoperta di una vegetazione fitta e ossessiva si distende il capoluogo, Atuona, fondato alla metà dell’Ottocento dai missionari. Tahiti e la sua estenuante dolcezza sono lontane. La gendarmeria, l’emporio, la posta, la chiesa dal tetto aguzzo, la banca: agli edifici dell’epoca del pittore si sono aggiunti market, un hotel, qualche pensione, un pugno di casette con grandi parabole tv, pannelli solari o generatori, mentre per le strade polverose rotolano pickup coreani mangiati dal tempo e dalla ruggine e ruzzano bambini, cani, maiali e polli. Nel cimitero che domina la baia, all’ombra sfrangiata dei frangipani riposano vicini il cantautore giunto qui inseguendo la vita e il pittore arrivato fuggendo la morte, le cui parabole si chiusero nell’arco di soli tre anni. Ma alle spalle della ricostruzione della casa atelier di Gauguin, con disegni e copie delle sue opere, e dell’hangar che racchiude il bimotore Jojo di Brel e il piccolo museo a lui dedicato, si apre un grande stadio dove si svolge la parata che inaugura il Festival delle arti, la rassegna dedicata alle danze, ai canti e ai valori delle tradizioni locali, che dal 1986 ogni quattro anni celebra l’orgoglio marchesiano. Un grande incontro che contribuisce a rinforzare l’identità degli enata (in marchesiano, gli uomini) e che lo scorso dicembre ha visto la partecipazione di gruppi provenienti anche da Ua Pou e Nuku Iva (dove si svolge alternativamente il festival), oltre a Tahuata, Fatu Hiva, Uahuka, Tahiti, Rikitea (arcipelago delle Gambier) e, per la prima volta Rapa Nui, isola di Pasqua, in Cile.
Tema di questa edizione, che in tre giorni ha visto la presenza di oltre 1.600 persone, è stata Haahua i te temu, cioè il ritorno alle basi della cultura marchesiana. Un evento unico, ben diverso dalla festa dell’Heiva che si tiene a luglio a Tahiti: meno show e più autenticità. In poche ore si bruciano lunghi mesi di preparazione, mentre nel mercatino gli artigiani espongono il meglio dello straordinario artigianato costituito da collane in osso, lance, sgabelli, oggetti in legno intagliato, modellini di piroghe e pesci.
Molti i turisti, soprattutto quelli sbarcati dall’Aranui 5, il cargo che da anni costituisce il cordone ombelicale che collega l’arcipelago alle altre isole della Polinesia e dal quale vengono scaricate automobili, lavatrici, generi alimentari. Ma questa è soprattutto la festa delle Marchesi, la loro festa. Qualcosa da celebrare con allegria e grandi risate, per sentirsi membri di un’unica grande cultura di cui sono gli orgogliosi interpreti. Un orgoglio che gonfia il cuore e i muscoli. Vissuto sulla pelle, dove simboli e immagini raccontano la propria storia e quella del clan, cantato con parole antiche e cuore nuovo nei lunghi imenei femminili, espresso nei colori sfavillanti dei costumi, diversi da isola a isola. Evocato nella pulsante haka dei guerrieri e nella delicata hakamanu (danza dell’uccello) femminile, introdotte sempre da un accalorato oratore, e tese a rappresentare piccole storie: un funerale, un corteggiamento, l’arrivo dei missionari, la cui uccisione suscita sempre grande entusiasmo fra gli spettatori. Comprensibile, visto che furono proprio loro, gli intransigenti popa’a, a soffocare la cultura polinesiana, abbattendo idoli, bruciando sculture e proibendo i canti, le danze, i tatuaggi, la musica e la lingua locali. Proibito persino l’uso delle collane di fiori, gli uomini imbraghettati, le donne mortificate da camicioni informi.
In cento anni di colonizzazione francese i marchesiani si ridussero da 20mila ai 2.300 ricordati dalla viaggiatrice francese Renée Hamon, che visitò le isole nel 1937. Falcidiati da tisi, lebbra, tubercolosi, alcolismo, sifilide, tutti portati dagli europei, e fiaccati nell’anima dalla mancanza di futuro, i più grandi navigatori della storia sembravano destinati a scomparire insieme alla loro antica cultura. Poi cinquant’anni fa piano piano le cose sono cambiate e i marchesiani (ora la sola Hiva Oa conta 2.300 abitanti) hanno ritrovato il loro posto nella storia. Merito anche degli insegnanti come Felicia, che impiega ore a raggiungere la scuola di un villaggio dell’interno, dove ai nove allievi delle cinque classi insegna l’orgoglio della propria cultura, ma anche la responsabilità di dover gestire al meglio il loro patrimonio.
La vita di questo arcipelago oggi è infatti tutta una questione di equilibrio. Fra passato e futuro, fra modelli interni ed esterni, fra delusioni e aspettative, fra orgoglio e sfiducia. La sua Natura invece non conosce compromessi. Se infatti le altre isole della Polinesia con i loro languori sono donna, le Marchesi sono uomo. Isole non per tutti. Belle e terribili, estreme, nere, feroci, arroganti, eccessive. Orfane dell’abbraccio della barriera corallina, dominate da creste aguzze, sfinite dall’umidità e febbricitanti di calore, hanno solo se stesse, assediate come sono dal mare che risparmia minuscole spiagge scure ansimanti, terra di conquista dei voraci moschini, i terribili nonò. Isole non da ammirare ma da subire e accettare. Quello che succede negli altri due villaggi dove si svolge il festival, Puamau, sulla costa nord, raggiungibile dopo ore con una strada sterrata che scavalca il crinale che taglia in due l’isola, fra falesie vertiginose, capre selvatiche e insenature di sabbia nera dove ribolle l’oceano, e Oipona, a Taaoa, superbo sito marchesiano circondato dalla foresta, dove i gruppi si esibiscono in un’area circondata da terrazze di pietra lavica punteggiate da cinque idoli di pietra, i tiki, immobili custodi di vallate solitarie, fra il grugnire dei maiali selvatici e il canto ossessivo degli usignoli gialli. Soprattutto qui, in questi villaggi remoti di fare in muratura assegnati ai colpiti dai cicloni e case in legno e lamiera immersi in una natura sontuosa e opulenta, ti trovi a fare i conti con paesaggi da cartolina, quella natura primigenia tante volte fermata nei quadri di Gauguin. Lo stereotipo della palma diventa più reale del reale, ti confronti e scontri con un’immagine che si fà verità, carne e sangue, si traduce in profumi, colori, suoni, fatica e sudore. Con questi alberi che si intrecciano e aggrovigliano cercando affannosamente la luce, i cavalli che occhieggiano nella boscaglia, le vallate immote custodite da manghi e alberi di cocco. Con i traballanti truck variopinti che faticosamente e scompostamente assicurano i collegamenti fra le sedi del festival e su cui si accalcano tamburi, mazze, casse di acqua e danzatori che si cambiano lungo il tragitto. Salgono uomini e donne, scendono dei: i corpi perfetti, la pelle lucida e tesa, fiori, piume, denti di squalo, tatuaggi, semi come ornamento.
All’inizio ti rendi conto di quanto sia duro confrontarsi e reggere tanto splendore, e con un prezzo così caro che solo i marchesiani sembra possano sopportare. Così come credi di assistere a un’esibizione di cui sarai solo spettatore, appollaiato sulle rocce o sulle radici nodose. Piano piano però, mentre, le gambe di piombo, arranchi nella boscaglia seguendo il sentiero scivoloso che conduce alla spianata destinata al festival, ti accorgi che non puoi restarne fuori, che per godere di questa terribile bellezza devi accettare tutto, senza riserve. Ti lasci andare, sopraffare da emozioni e immagini. Il respiro si calma, i sensi si dilatano. Le Marchesi entrano in te. Docilmente ti lasci inzuppare fino alle ossa dallo sferzare bizzoso di improvvisi diluvi e scottare la pelle da schiarite abbacinanti. Accetti quietamente l’assalto degli insetti, non asciughi più il sudore, dimentichi il caldo soffocante che chiude la gola, lo zaino che ti massacra le spalle, segui il suono cupo e ossessivo dei tamburi che ti attirano nella foresta gonfia di umidità. Ti siedi per terra, nel fango che ti sporca i piedi, le gambe schiaffeggiate dall’erba bagnata che ti si avviluppa addosso, fra felci imperlate di umidità e morse dal sole, fiori spampanati dall’arsura, pietre laviche taglienti, radici avide di vita. Non ti preoccupi perché il cellulare non funziona e non sai esattamente quando e con quale mezzo tornerai ad Atuona. Dopo, domani non hanno senso, conta solo ora. Ti accorgi che non hai bisogno di nulla, solo di te stesso. Assapori una libertà totale, assoluta e sconosciuta, mentre la tua mente e i suoi sensi si muovono al ritmo dell’universo. I movimenti spezzati o morbidi dei danzatori, gli ossessivi canti ipnotici, i volti spaventosi dipinti di nero degli uomini, le mazze intagliate, i denti aguzzi di squalo intorno al collo, il lamento delle grandi conchiglie, i grandi occhi vuoti dei tiki, il tonfo sordo di decine di piedi che schiaffeggiano la terra, l’ondeggiare frenetico dei gambali di foglie. Urla, fumo, stordimento, allucinazioni. Cannibali, vahine, missionari, avventurieri. Ieri e oggi, uomo e natura. Tutto si fonde nell’armonia assoluta, in un eterno ritorno. Il viaggio è finito. Sei finalmente a casa.