Amatrice: difendiamo i nostri affreschi

...e dopo il sisma.

Il quattrocentesco santuario dell’Icona Passatora, poco fuori dal paese, è stato seriamente danneggiato dal terremoto del 24 agosto. Ma don Luigi e i suoi parrocchiani non si arrendono: «quella chiesa è parte di noi»

L’arte diventata polvere ricopre con frammenti di intonaco dipinto le panche e il pavimento del santuario dell’Icona Passatora (nelle foto), 3 km da Amatrice, in provincia di Rieti. Un piccolo e suggestivo tempio di devozione popolare, esistente in forme minori sin dal 1400, completamente affrescato da vari pittori della zona – il più celebre Dionisio Cappelli, da cui il giovane Nicola Filotesio, il genio del territorio più noto con il nome di Cola dell’Amatrice, avrebbe imparato l’arte dei colori. Il monumento è stato sottoposto a sequestro penale per scopo cautelativo dopo il terremoto che ha devastato il territorio di Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto e nessuno è più potuto entrare, nell’attesa che la magistratura faccia chiarezza sui precedenti restauri.
Da una delle finestrine della facciata centrale si intravede la navata polverosa avvolta nel buio gelido, con parte dei dipinti polverizzati quell’orrida notte in cui i Monti della Laga, con le cime di Pizzo di Sevo e Cima Lepri, «si sono impennate contro il cielo per poi ricadere su stesse». Parola di Luciana Brunamonte, residente in località San Martino, a due chilometri da qui, che le ha viste impazzire sotto i suoi occhi. Da oltre venti anni Luciana custodisce la chiave del santuario e fino al giorno prima del terremoto l’ha aperta a visitatori, almeno un migliaio all’anno. «Ho avuto la lucidità di prendere il fascicolo con le foto delle pitture – racconta – e poi sono scappata da casa. Quei pezzi di intonaco – dice indicando la navata – devono essere raccolti e numerati uno per uno, fino all’ultimo granello, perché noi rivogliamo i nostri dipinti com’erano e dov’erano». Come hanno fatto con il Duomo di Venzone, in Friuli, ricostruendolo pezzo per pezzo dopo la furia distruttiva di un altro terremoto, quello del 6 maggio 1976.

Luciana ha anche la chiave di un’altra chiesa, quella di San Martino, anch’essa del 1400, alle falde della montagna in vista della conca amatriciana, già colpita e rimessa in piedi più volte. Questa volta la ferita è un grande foro all’altezza dell’abside che però non ha lesionato le pitture all’interno. Al momento in cui scriviamo la piccola comunità aspetta che i vigili del fuoco arrivino a coprire quel buco, per non far entrare la pioggia e la neve dell’inverno imminente. Daniela Porro, a capo del Segretariato regionale del Mibact che coordina l’Unità di crisi dei Beni culturali del Lazio, ha promesso che tutte le pietre e gli intonaci dei monumenti saranno catalogati, impacchettati e “messi a dimora” affinché non si perda nulla di quest’arte che, come dice don Luigi Aquilini, responsabile delle due chiese, rappresenta «la vita religiosa, il folclore e il paesaggio del territorio».
Non arte minore, dunque, ma la carta d’identità di un pezzo d’Italia, che deve essere ricucita al più presto per non perdere la memoria e l’appartenenza. Intanto Luciana rimane a San Martino perché un’amica le ha prestato la casa, vigila sul pianoro in attesa dei tecnici con gli occhi incollati alle sue chiese, come un cane da pastore, di quelli bianchi che si confondono con le greggi, sicura che quest’inverno nessuno, nemmeno uno sciacallo, oserà penetrare nel suo regno.

Fotografie di Giuseppe Carotenuto