di Tino Mantarro
Gli edifici militari non più utilizzati sono centinaia e occupano punti nevralgici delle nostre città. Dopo fari, case cantoniere e caselli ferroviari sono un’altra sfida per il recupero del patrimonio immobiliare
C’è stato un tempo non troppo lontano in cui ogni anno decine di migliaia di giovani italiani poco più che maggiorenni lasciavano casa per servire la Patria. Dodici mesi, quando non di più, di esercitazioni, campi di addestramento, ginnastica mattutina, rancio discutibile, socializzazione forzata e docce tiepide. Scenari di un anno per qualcuno fondamentale, per altri infernale, erano le caserme del Car: i centri di addestramento reclute sparsi da Cuneo ad Avellino, da Montorio Veronese a Orvieto. I più fortunati, o quelli con le migliori conoscenze, finivano a far lavoro d’ufficio nelle caserme delle grandi città, gli altri si ammassavano tra il Friuli e l’Alto Adige. Gli alpini a Bolzano, a Dobbiaco; i fanti e gli artiglieri tra Udine, Casarsa della Delizia, Pordenone a vegliare su confini caldi che anno dopo anno si raffreddavano sempre più.
Ora questo tempo è finito, sulla carta dal 2005, e le caserme che li ospitavano sono vuote. Vuote e in disuso, formalmente dismesse. Un patrimonio edilizio immenso. Solo in Friuli-Venezia Giulia si trovano oltre 600 strutture dismesse, dalle grandi caserme alle piccole polveriere, dai fortini ai bunker. Duecento di queste lo Stato le ha cedute direttamenti ai Comuni, creando situazioni limite come a Chiusaforte o a Villa Vicentina, dove la superficie della caserma è quasi maggiore di quella del Comune. Le altre sono spesso abbandonate, cadenti e invase da vegetazione, in attesa di trovare una nuova destinazione.
Una situazione complessa e assai varia, perché un conto è dare un futuro a un elegante palazzo ottocentesco nel cuore di Roma e un conto è trovare qualcuno che voglia un insieme di edifici dispersi nella provincia di Vercelli. Anche perché spesso si tratta di un’edilizia dai caratteri particolari, legati alla propria funzione d’uso, ma spesso totalmente estranea al tessuto urbanistico in cui sorgono, specie ora che è venuto meno anche il legame vitale e quotidiano con le aree vicine. In città come Firenze, Roma, Torino e Milano già a fine 2014 sono stati firmati protocolli d’intesa tra Agenzia del demanio, Ministero della Difesa e Amministrazioni locali per valorizzare gli immobili strategici. Altrove si attende che qualcosa si muova.
Ma rimane aperta e assai discussa la questione di come affrontare, sia a livello burocratico sia tecnico, il riuso di una messe così ingente di immobili inserendoli nella programmazione urbanistica magari con ricadute socialmente utili come nel caso dell’edilizia scolastica o le residenze universitarie, o utili nel complesso a un rilancio della città, come nel caso di una destinazione a uso turistico o museale. Una questione affrontata in profondo nello studio collettivo che il Ministero dell’Università e della ricerca scientifica ha affidato a quattro unità di ricerca multidisciplinari di altrettante università italiane, da Roma a Napoli, da Pavia a Trento. Idee diverse, soluzioni possibili e casi di buone pratiche già realizzate (le prime dismissioni di immobili della Difesa sono state avviate con la legge finanziaria del 1997) sono state presentare e analizzate nel corposo volume «Le caserme e la città», frutto del lavoro degli studiosi coordinati da Franco Storelli. Perché ricostruire non vuol dire solo abbattere e sostituire, ma soprattutto recuperare.